Un razzo ha colpito la Luna. La redazione de L’Acernatore ne parla con l’esperto

Un razzo ha colpito la Luna a una velocità di novemila km orari.

Venerdì 4 marzo intorno alle ore 13.30 italiane, un grande detrito spaziale, residuo di un razzo, si è schiantato sulla Luna, in un cratere chiamato Hertzsprung, sul lato opposto del Satellite, fuori dalla vista di telescopi o veicoli spaziali.

L’oggetto che pare fosse alto dodici metri e largo tre, si è scontrato con il nostro Satellite a una velocità di circa novemila km orari. Secondo le stime degli scienziati avrebbe prodotto un cratere del diametro di venti metri e avrebbe fatto volare la polvere lunare per centinaia di km.

L’Acernatore, rivista impegnata nella ricerca scientifica, ha intervistato Enomoto Takeshi, crononauta esperto di universi paralleli.

A.: Il mondo dell’astronomia è in fibrillazione dopo quanto accaduto qualche giorno fa. Abbiamo pensato che un suo contributo potesse aiutare i nostri lettori a comprendere meglio quello che diversi quotidiani hanno scritto negli ultimi giorni.

E.T.: Ho sentito un gran botto, stavo dormendo…

A.: Non si è sentito nulla, siamo seri.

E.T.: No, dicevo, ho sentito un gran botto quando mi avete chiamato. Credo che il gatto, spaventato dallo squillo del telefono, deve aver fatto cadere qualcosa.

A.: Dicevamo che giorni fa un grosso pezzo di spazzatura spaziale ha colpito la Luna.

E.T.: Ho seguito la vicenda, non è chiaro cosa sia successo.

A.: In un primo momento si era pensato che si trattasse dei resti del Falcon 9 il lanciarazzi della americana Space X che nel 2015 aveva lanciato il satellite DSCOVER, il primo al di fuori dell’orbita terrestre. L’idea però è stata smentita poco dopo: attualmente gli scienziati americani pensano che l’oggetto che ha colpito la Luna sia una parte di un razzo cinese.

E.T.: Mi sembra che americani e cinesi in questi giorni stiano discutendo molto tra loro, anche di altre questioni.

A.: Sembra che americani e cinesi stiano litigando sulla paternità della spazzatura che avrebbe investito la Luna. I primi sono convinti che possa trattarsi di un pezzo del razzo lanciato nel 2014 relativo alla missione Chang’e 5-T1. L’ipotesi americana, però, è stata smentita da Pechino, che ha affermato che i resti di quel razzo sono già rientrati sulla Terra e hanno preso fuoco a contatto con l’atmosfera. Tuttavia gli astronomi cinesi hanno commesso un errore, facendo confusione nel comunicato tra due missioni con designazioni simili, il volo di prova e la missione di ritorno del campione lunare del 2020. Una confusione che ha aumentato i sospetti.

E.T.: I cinesi sono stati i primi a fare esperimenti con i razzi. Mi riferisco  al leggendario Wan Hu, mandarino cinese e famoso inventore che nel XVI secolo, nel tentativo di volare usando dei razzi, scomparve, trovando, molto probabilmente la morte nel bizzarro esperimento. Secondo la leggenda, il personaggio in questione, approntata una sedia di vimini con quarantasette razzi propulsori e altrettanti assistenti dotati di torce e pronti a dare fuoco alle micce, scomparve in seguito all’esplosione e al tremendo boato che l’accompagnò. Quando si diradò il fumo, infatti, del povero Wan Hu non c’era più traccia. Mi domando se l’impatto sulla Luna non sia causato dalla sedia di vimini che finalmente ha smesso di volare.

A.: Escluderemmo che si possa trattare di Wan Hu. Ad ogni modo, fortunatamente, la posizione dell’impatto è abbastanza remota e non rappresenta una minaccia per la missione Apollo o altri siti di atterraggio del programma spaziale.

E.T.: Sulle missioni spaziali nutro diversi dubbi.

A.: Cosa intende?

E.T.: Voglio dire che le missioni del programma Apollo sono una grande frottola. Non hanno realmente portato gli astronauti sulla Luna, e le prove degli allunaggi sono state falsificate dalla NASA, con la collaborazione del governo degli Stati Uniti.

A.: Forse dobbiamo rimanere concentrati sul tema dell’intervista.

E.T.: Mi lasci finire, sia gentile. In clima di guerra fredda con l’URSS, ne sono successe di cose. Anche la Luna serviva a creare consenso. La conquista dello spazio era un tema molto importante, specialmente dopo che i cosmonauti russi erano andati nello spazio.

A.: Quelli ci sono andati?

E.T.: Senza dubbio. Loro non hanno raccontato frottole.

A.: Torniamo all’impatto provocato sulla Luna: lo US Space Command, che tiene traccia della spazzatura spaziale, ha confermato ieri che i resti del razzo della missione lunare cinese del 2014 non risultano mai tornati a terra.

E.T.: Bisogna gettare la spazzatura e fare la raccolta differenziata. Anche nello spazio. Chi la sente altrimenti Greta Thunberg? Quando sono stato sulla Stazione Solaris facevamo la differenziata.

A.: Solaris è un romanzo di Stanisław Lem, per favore, non ci distraiamo. Lei ha voglia di scherzare.

E.T.: Ho conosciuto Lem, a Leopoli in Polonia. Abbiamo studiato insieme cibernetica e astronautica.

A.: Ora Leopoli è in Ucraina.

E.T.: Leopoli va e viene. Ho letto che ci sono manovre militari attorno all’Ucraina.

A.: Vorrei concludere parlando della sua esperienza con lo spazio. Nel libro di Fabrizio Ghilardi intitolato Le avventure romane di Enomoto Takeshi, edito da Idrovolante Edizioni, si dice che lei sia stato rapito da un oggetto volante non identificato.

E.T.: Io l’ho identificato. Era una navicella spaziale a forma di raviolo gigante. Erano certamente dei marziani.

A: Nel libro c’è scritto: “Da quello strano oggetto volante uscirono due esseri alti circa un metro con delle teste molto grandi rispetto al corpo. Portavano una specie di casco e la voce usciva dalla pancia, non dalla bocca. Si avvicinarono, mi parlarono in una lingua sconosciuta e mi invitarono a salire sul loro oggetto volante misterioso. Non ricordo molto. Mi fecero indossare un casco come il loro e mi ricordo che iniziai a comprendere la loro lingua, però dicevano cose strane che non capivo. Parlavano di cose tecniche, ma non so spiegare bene cosa dicessero, ero troppo piccolo. Mi portarono via, mi ricordo che vidi la Terra sempre più piccola, poi mi addormentai. Quando tornai a casa, due giorni dopo, i miei genitori erano disperati. Disperati e anche molto in collera con me, perché erano convinti che mi fossi allontanato in maniera sconsiderata”.

E.T.: Sì, confermo. Ma non ho detto tutto a Ghilardi. Mancano alcuni punti salienti.

A.: Ci può dire qualcosa di più?

E.T: Posso raccontarvi di quando ho conosciuto un paio di marziani con i quali sono ancora in contatto.

A.: Questo è molto interessante.

E.T.: Uno è Valentine Michael Smith…

A.: Questo è il marziano del romanzo di fantascienza di Robert A. Heinlein intitolato Straniero in terra straniera.

E.T.: Vero.

A.: E l’altro?

E.T.: L’altro si chiama Kunt.

A.: Questo anche lo conosciamo bene. È il protagonista del racconto Un marziano a Roma di Ennio Flaiano. Lei è un imbroglione.

E.T.: La colpa è di Ghilardi che mi fa dire un sacco di scemenze. Però io sono un crononauta, se lo ricordi. E sono anche un biblionauta, posso viaggiare nei romanzi. Ora devo tornare in un altro libro di Lem. Ci saranno presto novità.

L’utopico e il femmineo. Gioseffa Cornoldi Caminer e il Prospetto da una carta geografica matrimoniale (1786-1788)

Il bagliore fioco della lampadina getta il suo alone di luce a intermittenza, sopra alcune carte segnate dall’antichità, sparpagliate sul tavolo su cui sono piegata da diverse ore.

Saranno ormai le tre passate. Mi volto sulla pagina che mi è capitata tra le mani, il Prospetto da una carta geografica matrimoniale. Così dice, tra una cancellatura e un’abrasione:

Alcuni abili geografi hanno collocato il paese del matrimonio tra il ventesimo e il quinto grado di longitudine e il decimo nono di latitudine […]. La prospettiva che offre da lungi è quanto si può dire gradita, ma spariscono le di lui bellezze all’avvicinarsi. Vi si scopre da vicino la Baia dei desideri, di dove si fa vela per il Capo della sazietà, […] accade sovente di naufragare sullo Scoglio dell’avversione […] fintanto che giungere si possa alla Rada della mutua convenienza.

Il testo – una sorta di parodia dell’isola utopica del matrimonio –  porta la firma di una certa Gioseffa Cornoldi Caminer. Era stato pubblicato su un numero del primo giornale letterario femminile di Venezia, «La donna galante ed erudita». Giornale dedicato al bel sesso, diretto dalla Caminer stessa e attivo dal 1786 al 1788.

Diversi numeri prima, nella Giustificazione dell’editrice, leggo: «la mia penna mi dice all’orecchio che posso anch’io scarabocchiare. Mi avverte per altro che devo restringermi a letteratura femminea», e che «il più difficile oggi per un letterato non è di parlare d’erudizione coi dotti, di guerra coi militari, di cani e di cavalli con i signori, ma dei niente con diverse donne».

Nel tardo ‘700, parlare di matrimonio come una distopia in un giornale femminile non doveva essere esattamente parlare dei «niente», tra un articolo di cosmesi e uno di teatro.

Utopia all’epoca poteva significare due cose: o nostalgica metafora dell’impossibile, come l’isola immaginaria di Thomas More; oppure fissazione di un punto, di un fine da raggiungere nel concreto; sogno di trasformazione del mondo reale; lo scopo idealizzato che implica progetto; definizione delle coordinate del proprio futuro per mezzo dell’azione. È la corsa al premio che non casca dall’alto per fortuna o per divina Provvidenza.

In un certo senso, osservando il testo di Cornoldi Caminer, si avverte una forte carica trasformativa. Il matrimonio, l’isola felice dell’utopia femminile, non può che presentare al suo interno la «Baia della sazietà» e la «Rada della mutua convenienza», andrebbe perciò riformato.

Leggo altrove, nella Donna galante:

Le donne fanno qualche volta maggiori prodezze coi ventagli che gli uomini colla spada; affinché dunque sappiano esse ben maneggiare quest’armi ho stabilito un’Accademia per addestrare le figlie nell’esercizio del ventaglio secondo l’aria ed i movimenti che sono oggi più alla moda. Le Signore che portano sotto la mia direzione il ventaglio sono ordinate in battaglia due volte al giorno nella mia gran sala, ove insegno loro a ben maneggiar quell’arma, e a far l’esercizio col mezzo del seguente comando:

Prendete il ventaglio.

Spiegate il ventaglio.

Scaricate il ventaglio.

Abbassate il ventaglio.

Riprendete il ventaglio.

Agitate il ventaglio.

La Caminer parla effettivamente ancora dei «niente»: della corretta postura e dei passaggi dello sventolio del ventaglio come se si parlasse delle diverse posizioni di un battaglione in trincea.

Nei segnali d’ironia, nel non-detto, nel vocabolo ossessivamente ripetuto, c’è quello che è stato più volte definito il “potenziale utopistico”: l’esagerazione stilistica e narrativa deve provocare nel lettore la critica del presente, al fine di trasformarlo.

I «niente», la Caminer lo sa, possono diventare tutto.

Nella Donna galante, tra un testo utopistico e un altro, abbondano articoli di moda, senza alcuna ironia o implicazioni satiriche. Secondo la studiosa Lorenza Farina,

il tipo di donna tratteggiata in questo foglio periodico è pieno di contraddizioni […]. Da una parte vi è l’immagine di una femminista ante litteram: «Si aprano gli annali del mondo, e si vedrà cosa erano le donne. Si dica che abbiamo l’impero della bellezza, e che si volle rapirci quello della forza e della scienza. Se noi avessimo fatto le leggi, le cose avrebbero preso un altro aspetto. Saremmo affisse sul trono, giudicheremmo gli uomini, e forse il mondo non anderebbe sì male». Dall’altra un nostalgico rimpianto per il passato, per una concezione goldoniana della famiglia «ben regolata». […] I rapporti tra i due sessi vengono riproposti sovente e con accesi interventi. La corruzione del secolo, secondo la Cornoldi Caminer, ha colpito e messo in crisi anche l’istituzione del matrimonio, cui contribuì una diversa concezione dell’amore e la nascita di quella pittoresca figura che fu il “cavalier servente”. Crisi rilevata maggiormente nelle grandi città «ove il costume è più corrotto» mentre «nella campagna, nelle piccole città e presso le nazioni costumate il calcolo è precisamente al rovescio dell’addotto, che espone lo stato delle vizi».

Il rovesciamento della felice isola del matrimonio nel Prospetto geografico è un procedimento retorico ironico: ingigantisce gli oggetti di scena, come a teatro, e funge da lente d’ingrandimento sulle azioni umane, focalizzandosi sulle aspettative storiche, sulle possibilità reali, sulla volontà.

Forse Gioseffa Cornoldi Caminer nel suo Prospetto voleva solo scherzare.

La sua scrittura sarà stata ironia fine a sé stessa, probabilmente neanche così rivoluzionaria. Ma nulla vieta di pensare che fosse anche la sua percezione di uno iato tra la società com’era e società come avrebbe dovuto essere. L’avvertimento di uno scarto, la speranza che un giorno le sue «femminee» lettrici, appassionate dei «niente», possano colmarlo.

Carmen Niola

The Match of my Life – Pino Wilson

Oggi Pino Wilson ha reso l’anima a Dio. Era il Capitano della prima Lazio che ho visto giocare e che mi ha fatto innamorare. Avevamo fatto amicizia e dalle nostre chiacchierate era nato questo pezzo, scritto per un libro che non ho mai finito di scrivere, in cui i campioni del passato raccontavano la partita più importante della loro vita. Pino scelse di raccontare le partite che disputò contro le squadre inglesi.

 

I tifosi dell’Ipswich Town che mercoledì 24 ottobre 1973 acquistarono per dieci pence il programma della partita tra la squadra di Portman Road e la Società Sportiva Lazio valevole per la gara d’andata del secondo turno della Coppa UEFA, lessero con particolare interesse la presentazione di due calciatori della compagine capitolina per via del loro ‘british background’: Giorgio Chinaglia e Giuseppe Wilson.

Il primo era stato portato da piccolo in Gran Bretagna. Il padre aveva aperto un ristorante italiano a Cardiff e Giorgione aveva indossato la maglia dei rivali dello Swansea in Quarta Divisione.

Il secondo, nato a Darlington da padre inglese e madre italiana, rappresentava per Gerry Harrison, commentatore di Anglia TV che aveva una colonna anche sui match programmes ufficiali dell’Ipswich Town, il classico libero all’italiana.

L’Italia è il Paese che ha dato al mondo l’infame catenaccio” – scriveva il commentatore inglese nel programma della partita – “un sistema difensivo frustrante e deprimente che prevede una marcatura per ogni difensore e un battitore libero che raddoppia la marcatura in caso di emergenza. Fortunatamente non abbiamo mai visto una squadra britannica usare questa tattica sebbene nel campionato ci sia stata una discreta attenzione a curare la fase difensiva. La Lazio, senza dubbio, ci svelerà le complessità del catenaccio e il modo in cui gioca un libero, grazie al giocatore nato a Darlington, Wilson, che generalmente opera in quel ruolo.

Al di là delle disquisizioni più o meno tecniche riguardo al catenaccio e alla Lazio di Maestrelli, in realtà, il commentatore inglese non si sbagliava circa l’importanza del ruolo ricoperto da Wilson nella difesa della squadra romana.

Infatti, se la Lazio – considerata dagli inglesi un po’ l’Ipswich Town d’Italia, la squadra rivelazione dell’anno, brillante e volitiva, capace di sfidare Juventus e Milan fino all’ultima giornata di campionato – aveva incassato nella passata stagione solo sedici reti, molto era merito proprio di Pino Wilson, l’“inglese”.

E non lasciatevi trarre in inganno dalle loro prestazioni nell’Anglo-Italiano” – continuava Harrison – “i clubs italiani sono famosi per gli esperimenti che fanno durante il Torneo. Quest’anno la Lazio ha pareggiato in casa con Manchester United e Luton Town e in Inghilterra ha perso con l’Hull City e con il Crystal Palace”.

Contro l’Ipswich Town, Wilson giocò libero, proprio come da presentazione.

“In realtà fino a quel momento i tifosi inglesi mi avevano visto giocare come difensore in marcatura, col numero tre sulle spalle. Con Papadopulo costituivamo due marcatori veramente difficili da superare. Contro l’Ipswich, invece, in difesa eravamo Facco con il numero due e Martini con il numero tre; Giancarlo Oddi con il cinque e io con il numero quattro. Fu una pessima partita per la nostra difesa”.

La Lazio di Wilson è una formazione che è appena tornata alla ribalta internazionale. Fa simpatia in Inghilterra ed è considerata un giantkiller, cioè un’ammazza-grandi.

Ma soprattutto la Lazio piace grazie ai due campioni “inglesi”. Nell’official souvenir handbook  che presenta l’Anglo-Italian inter-league clubs competition del 1973 una battuta affettuosa è proprio riservata a Wilson: “He now finds the Neapolitan accent more facile than the accents of the North East, l’accento napoletano gli viene più facile di quelli del nord-est dell’Inghilterra ”.

“Credo sia normale, avevo sei mesi quando lasciai l’Inghilterra. Sento molto le mie origine britanniche ma a dire la verità a Darlington non ci sono mai tornato. Avevo l’intenzione di andare a visitare la città in cui ero nato, ma quando giocammo a Sunderland furono i miei cugini a venirmi a trovare”.

Sunderland dista da Darlington una ventina di chilometri e Wilson sente l’aria di casa.

“Ho sempre subito il fascino dell’Inghilterra e del calcio inglese. Da ragazzo ero particolarmente innamorato del Manchester United, una squadra composta da grandi calciatori, l’Arsenal, invece, mi era meno simpatica. Una volta un giornalista mi chiese un giudizio circa un’eventuale convocazione con la maglia della nazionale inglese. Certamente indossare la maglia dei Tre Leoni sarebbe stato un sogno. Però ero molto felice di giocare in Italia con la Lazio, società alla quale dovevo tantissimo  e mi sentivo piuttosto pronto a indossare la maglia azzurra”.

Wilson quando gioca contro le squadre inglesi si esalta, ma i suoi compagni di squadra non sono da meno. Tra il 1970 e il 1973, tra partite di Coppa delle Fiere, Torneo Anglo-Italiano e Coppa Uefa, la Lazio visita la terra d’Albione diverse volte. Incontra Sunderland, Doncaster Rovers, Wolverhampton, Hull City, Arsenal, Crystal Palace e Ipswich Town.

“Saranno state le mie origini, ma contro le squadre inglesi ho sempre giocato partite molto intense, non ci stavo proprio a perdere, nemmeno in amichevole” – ricorda il Capitano della Lazio del primo scudetto. “O forse era solo l’atmosfera che si respirava negli stadi inglesi. Ho disputato diverse partite in Gran Bretagna. Alcune valevoli per le Coppe europee, altre per il Torneo Anglo-Italiano di Gigi Peronace. È vero che noi italiani partecipavamo per fare un po’ di prove, ma l’impegno non mancava mai. Come poteva essere altrimenti? Giocare contro le squadre inglesi significava trovarsi contro giocatori molto motivati e tifosi molto caldi. E anche una stampa spesso ostile. Il nostro allenatore, Lorenzo, la prima volta che arrivammo in aeroporto in Inghilterra, fu avvicinato da un giornalista che gli chiese: ‘Coach?’ Lorenzo un po’ preoccupato gli rispose ‘No, friend, tourist’. In Inghilterra gli stadi erano sempre pieni e il tifo era eccezionale. Mi ricordo che a Wolverhampton dove perdemmo per uno a zero, rimasi molto colpito dal calore del pubblico ma anche dalla loro compostezza. Eravamo vicinissimi agli spettatori e l’ordine pubblico era mantenuto solo da un pugno di poliziotti con i cani. Ogni tanto mi giravo a controllare che nessuno entrasse in campo”.

Wilson sfoglia il programma della partita giocata dalla Lazio contro i Wolves. Si sofferma sulla fotografia in bianco e nero della squadra inglese. Sorride e punta il dito su Mike Bailey. “Questo qui con i basettoni me lo ricordo, giocava in difesa”. Non mi dice, però, che è Bailey a segnare l’unico gol della partita. Gli indico Jim Mc Calliog, un giocatore mingherlino che giocò la partita contro la Lazio con il numero sette sulla maglia, e gli dico che gestisce il King’s Arms Pub a Fenwick, nell’Ayrshire in Scozia e che a breve lo andrò a trovare.

“Altri tempi, altra gente” – commenta scuotendo la testa. Poi torniamo a parlare dell’Inghilterra.

Gli stadi inglesi lo affascinano in maniera particolare.

“Il 23 settembre 1970 giocammo ad Higbury, uno stadio meraviglioso, così come incantevole era il colpo d’occhio sulle tribune. I Gunners erano più forti di noi e riuscirono a imporsi per due reti a zero. Un fatto è certo: la Lazio di quegli anni era una squadra tenace e giocava anche un buon calcio. Però dall’Inghilterra siamo sempre tornati sconfitti nelle partite di Coppa. Vincemmo solo una partita amichevole contro il Doncaster Rovers”.

I Rovers erano una squadra di metà classifica della Terza Divisione. La Lazio giocò un’amichevole al Belle Vue e vinse quattro a zero. Si trattava di un allenamento tra due partite disputate in Gran Bretagna per l’Anglo-italiano, la sconfitta al Roker Park di Sunderland per tre a uno e quella per uno a zero al Molineaux Stadium di Wolverhampton.

“In casa, però, specialmente nelle partite di una certa importanza, nonostante le squadre inglesi fossero più blasonate e più forti di noi, dominavamo. E qualche volta in campo volavano colpi proibiti. Dovevamo farci rispettare”.

È il caso di due partite passate alla storia più per le risse scoppiate in campo e fuori che per il risultato finale, Lazio-Arsenal disputata all’Olimpico il 16 settembre 1970 e Lazio-Ipswich Town giocata sempre in casa il 7 novembre 1973.

“Certamente uno dei tratti dominanti degli inglesi era quello di interpretare il calcio in chiave molto agonistica. Entrare decisi, ma senza cattiveria, era uno dei loro modi di far capire che l’avversario era stimato e rispettato. A noi non sembrava vero di poter giocare duro. Certo, qualche volte la partita degenerava e ci scappava la rissa. Diciamo pure spesso”.

Ci sono anche dei precedenti che nello spogliatoio della Lazio si tramandano. Nel 1965 i biancocelesti avevano incontrato in amichevole l’Arsenal. Una partita disputata allo Stadio Flaminio al cospetto di tremila spettatori, domenica 2 maggio.

La Gazzetta dello Sport l’indomani aveva titolato: “Deplorevoli scorrettezze dei giocatori biancazzurri”. E nel pezzo si leggeva così: “Una prova di forza degli inglesi dell’Arsenal, che si sono imposti nettamente fornendo una vera e propria lezione di pratico e rapido gioco. La Lazio superata anche sul piano atletico, ha finito per fare la figura della squadra di provincia che, non trovando il pallone, piglia di mira le gambe degli avversari”. Zanetti, Carosi, Vitali e Renna, dice la Gazzetta, “nelle loro reazioni, si sono trovati a commettere scorrettezze da espulsione”.

Wilson non faceva parte di quella squadra ma Mc Lintock, Armstrong e Governato dopo cinque anni si ritrovarono di nuovo a Roma in una partita di Coppa delle Fiere.

“Con l’Arsenal giocammo la prima partita in casa. Erano i trentaduesimi di Finale della Coppa delle Fiere della stagione 1970-71. L’Arsenal era la squadra detentrice del trofeo e anche la favorita alla vittoria finale. Parliamo dell’Arsenal del double, campionato e FA Cup vinti nella stagione 1970-71. Loro avevano una squadra di campioni affermati, penso a George Graham, ad Armstrong e a Radford che all’Olimpico ci segnò due reti. Il primo tempo si chiuse zero a zero. Avevamo giocato bene e avevamo avuto le nostre occasioni per passare in vantaggio. Poi, tornati dagli spogliatoi, in pochi minuti finimmo sotto di due reti. Allora iniziammo nuovamente a giocare. Prima l’arbitro non ci assegnò un vistosissimo rigore per fallo di McLintock su Governato; poi non applicò la regola del vantaggio quando Chinaglia segnò dopo che era stato commesso fallo su Nanni. Cominciammo a innervosirci e altrettanto fecero i nostri tifosi sulle tribune. Dalla curva Nord entrarono in campo alcuni giovani che furono prontamente bloccati dalle forze dell’ordine. Riuscimmo a pareggiare grazie alla nostra rabbia e a una prova davvero eccellente. Ma non era finita lì”.

Terminata la partita, le due squadre si erano ritrovate al ristorante Augustea, in via della Frezza.

I giocatori della Lazio masticavano amaro e l’aria era tesa.

“Ad un certo punto, nel ristorante scoppiò una zuffa incredibile. Una scazzottata da film. Sembrava una rissa tra bande rivali, piccoli gruppi che si affrontavano e si picchiavano, poi si separavano e tornavano a fronteggiarsi. Volarono davvero tanti pugni. Michelangelo Sulfaro fu uno di quelli più decisi a farsi rispettare, insieme a Papadopulo e Morrone che da buon argentino aveva il sangue molto caldo. Un carissimo ragazzo, Morrone, ma non conveniva proprio farci a pugni. Sinceramente non ho chiaro come fosse cominciata la rissa, però mi ricordo che tornai a casa con la giacca strappata. Non fu una cosa facile raccontare a mia moglie come una cena con i colleghi inglesi fosse degenerata in un incontro di pugilato”.

Nel 1973, in Coppa Uefa la Lazio si trovò di fronte, nel secondo turno, l’Ipswich Town. E fu di nuovo battaglia. Stavolta solo in campo, ma ben oltre il novantesimo minuto di gioco.

“Era la squadra rivelazione del campionato inglese. Il loro allenatore era Bobby Robson e stavano disputando una stagione incredibile, tenendo testa a Leeds United, Liverpool e Derby County. All’andata perdemmo quattro a zero in uno stadio con quasi trentamila spettatori. Il loro numero dieci, Trevor Whymark segnò tutte e quattro le reti. Era immarcabile. Il quarto gol, però, fu viziato da un fallo di mano dell’attaccante inglese che si aggiustò la palla mentre si liberava della marcatura di Facco. Le nostre proteste furono veementi, ma l’arbitro dell’incontro, uno svedese, fu irremovibile”.

La Lazio nella partita di ritorno avrebbe dovuto segnare cinque reti senza subirne alcuna. Era un’impresa difficile, quasi disperata. Ma non impossibile per gli undici biancocelesti. I giocatori e i tifosi lo sapevano, ed erano tutti molto carichi, specialmente dopo le dichiarazioni rilasciate, prima della partita, dai calciatori di entrambe le squadre. I giornali inglesi come al solito avevano magnificato i maestri del calcio contro la pochezza del calcio italiano, tutto fatto di difensivismo e catenaccio. Il Daily Express aveva scritto che la difesa della Lazio era stata presa dal panico di fronte ai feroci attacchi degli inglesi che avrebbero potuto fare a pezzi qualsiasi squadra europea. Insomma, i giocatori della Lazio erano carichi a pallettoni.

“Iniziammo bene la partita di ritorno. Dopo meno di un minuto eravamo già in vantaggio per uno a zero. Segnò Garlaschelli su cross di Frustalupi. Poi Chinaglia fece il due a zero col quale chiudemmo il primo tempo in vantaggio. Gli inglesi avevano perso tutta la loro baldanza. Ora erano loro a difendersi, soprattutto giocando in maniera fallosa. Whymark non toccò un pallone”.

Nella ripresa successe il finimondo. La partita degenerò quando l’arbitro olandese negò un rigore alla Lazio e ne concesse uno inesistente agli inglesi.

“Furono in pochi a mantenere la calma. Io la persi. Giocavamo contro gli inglesi per i quali, come sempre, provavo un sentimento misto di amore e di odio. Vedevamo la possibilità di passare il turno contro una grande squadra e ci rimanemmo molto male a subire un arbitraggio scandaloso. C’era un rigore per noi per un fallo di mano, invece l’arbitrò ne assegnò uno agli inglesi. Ci fu un grande parapiglia”.

I giornali inglesi raccontano che Wilson prese il pallone che era già sul dischetto e lo spostò in una fossetta che c’era un po’ più indietro. Servì a poco perché Viljoen segnò il rigore.

“È un episodio che non ricordo. C’era troppa confusione. Però ricordo bene che da quel momento la gara cambiò completamente. Chinaglia segnò altri due gol e sul finire gli inglesi fissarono il risultato sul quattro a due per noi. Dopo il fischio finale scoppiò il finimondo. Giorgione aggredì l’arbitro con un calcio e uno schiaffo, i guardalinee furono bersagliati con lanci di oggetti; in campo ci fu la caccia all’inglese. Nel tunnel ci fu un tafferuglio tra i nostri giocatori e il portiere dell’Ipswich Town, Best, che fu aggredito e rimase colpito al volto. Fuori allo stadio si verificarono diversi incidenti tra polizia, carabinieri e tifosi che tentarono anche di fare un’invasione di campo non certo pacifica. Qualche bandiera inglese fu persino bruciata sugli spalti. Lacrimogeni e cariche di polizia riportarono la situazione sotto controllo dopo oltre un’ora e mezza. Gli inglesi uscirono scortati con il loro pullman. Purtroppo la Lazio fu squalificata dalle competizioni europee per un anno e non potemmo disputare la Coppa dei Campioni l’anno seguente”.

Chinaglia rilasciò delle dichiarazioni pesanti, in linea col personaggio: le squadre che venivano a Roma sapevano che dovevano sbrigarsi a lasciare il campo in fretta e i giocatori dell’Ipswich Town non erano stati abbastanza svelti.

L’Italia avrebbe disputato di lì a breve un incontro amichevole a Londra e bisognava tenere alta l’attenzione. La nazionale azzurra, guidata in attacco proprio da Chinaglia, espugnò Wembley con un gol di Capello a quattro minuti dalla fine. Era il 14 novembre. Dalla rissa dell’Olimpico era passata solo una settimana.

“Fu ancora una volta una partita dell’Anglo-Italiano a trasformarsi in rissa, quella contro il Manchester United” – continua Wilson che ha un ricordo molto nitido di tutta la sua straordinaria carriera.

Si giocava la seconda giornata del Torneo Anglo-italiano, la Lazio se la doveva vedere all’Olimpico con il Manchester United. Era il 21 marzo 1973.

A dire la verità, già la prima giornata del Torneo aveva evidenziato le solite ruggini tra i giocatori laziali e quelli inglesi. Una Lazio sotto tono, esattamente un mese prima, era uscita sconfitta per due a uno dal Boothferry Park contro l’Hull City. Frustalupi aveva colpito un avversario che era già a terra e ne era nata una mischia. Holme e Oddi si erano presi di petto e per poco non scoppiò una rissa undici contro undici.

La partita con lo United, invece, era iniziata con fiori e abbracci tra i capitani delle due formazioni, Wilson e Charlton.

Finì con la caccia all’uomo e saltò anche il previsto scambio di maglie alla fine del match.

“Bobby Charlton non ha bisogno di presentazioni. Giocare contro di lui fu un’emozione immensa. All’inizio della gara gli consegnai una targa ricordo e una medaglia d’oro. Peccato che come al solito la partita degenerò. Stavolta, però, non fummo noi i primi a iniziare. Tutta colpa di Kidd, che al quindicesimo del primo tempo sferrò una gomitata maligna a Facco, quando la palla era ormai lontana. Dopo l’intervallo ci rendemmo conto della gravità dell’infortunio di Mario, che riportò la frattura della mandibola. Manservisi colpì con un pugno Lou Macari che a breve ne prese un altro anche da Frustalupi. Giancarlo Oddi venne alle mani con Kidd e l’arbitro inglese, Hill si fratturò un dito nel tentativo di dividerli. Io ero molto nervoso e iniziai a colpire duro gli avversari. Ricordo anche un episodio divertente, che per diversi giorni mi pesò molto sulla coscienza. Su rinvio del portiere avversario, intervenni deciso sul pallone spiovente e assestai un bel calcione nel sedere al giocatore con il quale me lo contendevo. Solo dopo il fallo mi accorsi che si trattava proprio di Bobby Charlton. Ci rimasi davvero tanto male. Per giorni considerai come scusarmi con lui. Pensai di scrivergli, di giustificarmi in qualche modo. Probabilmente per Charlton fu uno dei tanti calci presi nel corso di una formidabile carriera. Per me fu un’offesa non voluta a un monumento del calcio mondiale”.

La Lazio uscì dal match dell’Olimpico con diversi giocatori indisponibili. Oltre a Facco che rimase fuori per un mese, si infortunarono anche Petrelli, contrattura muscolare e Garlaschelli, stiramento. La Lazio, dopo aver minacciato di abbandonare il Torneo, decise di affrontare la trasferta londinese con il Crystal Palace con una formazione rimaneggiata.

“Saltai la partita contro il Palace al Selhurst Park e anche quella dell’Olimpico contro il Luton Town. A Londra gli inglesi protestarono per via della nostra formazione molto rimaneggiata. Però, per fortuna, né a Londra, né a Roma ci furono situazioni che sfociarono in rissa”.

Pino Wilson quando racconta ha il piglio del capitano.

Impettito, preciso, sempre puntuale. Staresti ad ascoltarlo per ore.

“Ho realizzato il sogno di ogni bambino della mia generazione, diventare calciatore, ecco perché ricordo tutte le partite che ho disputato. Ma se mi è difficile raccontare una partita che più delle altre mi è rimasta nel cuore, devo essere sincero, ce n’è una che non vorrei aver mai giocato, al di là del risultato, e che mi pesa molto ricordare”.

Wilson si commuove. Ripensa a quella domenica 6 aprile 1975.

Fu una primavera triste. Si moriva per la politica, a destra e a sinistra. Anche la hit parade, chissà, forse risentì del clima generale, con Modugno che cantava una canzone tutt’altro che allegra: ‘Piange il telefono’.

“Scendemmo in campo per giocare contro il Torino dopo una settimana terribile. Il trentuno marzo Maestrelli venne ricoverato alla clinica Paideia per accertamenti sul suo stato di salute. Al suo posto in panchina c’era Lovati. In mattinata, prima dell’incontro, venimmo a sapere notizie non proprio confortanti circa le condizioni del nostro allenatore. Il primo tempo di una pessima gara finì due a zero per i granata, forse ignari di quanto stava capitando. Giocammo male, contratti, con il pensiero altrove. Mentre rientravamo negli spogliatoi il pubblico, che ignorava la situazione drammatica, ci fischiò. Negli spogliatoi venimmo a sapere del cancro terminale che non dava a Maestrelli nessuna speranza di vita. Qualcuno pianse, qualcuno imprecò. Pensammo anche di non tornare in campo. Invece, con le lacrime agli occhi continuammo a giocare. Chinaglia segnò anche un gol, ma il Torino alla fine ne segnò cinque. Ad un certo punto, completamente frastornato, guardai il tabellone che segnava i gol dei granata, mi avvicinai a Giancarlo Oddi e gli dissi: ‘Ma il tabellone si sbaglia, ne abbiamo presi solo quattro’. Oddi mi riportò alla triste realtà del campo. Ecco, questa è proprio una partita che non avrei voluto giocare”.

Pino Wilson, gentiluomo per metà inglese e capitano della Lazio.

Fabrizio Ghilardi, tifoso della Lazio.

UFO Solar, una vecchia arma di distruzione di massa

UFO Solar pallone giocattolo

Le tante immagini di missili (Totò nel film “Totò nella Luna” era convinto che si pronunciasse missìli), razzi e materiale bellico analogo trasmesse in questi giorni (a parte quelle spacciate per vere e prese da un videogioco che simula la guerra), mi hanno fatto pensare a un’arma terrificante. Un’arma che si trovava in commercio quando ero bambino.

Così la descrivo in Wembley in una stanza (Minerva Edizioni, 2010):

“Pensiero sospeso in aria, leggero, lontano come un UFO solar, quella specie di aquilone che pieno d’aria diventa lungo sei metri e se non stai attento ti porta nello spazio con sé”.

Chi, come me, si è allontanato abbastanza dalla propria data di nascita, ricorderà sicuramente quello strano sacco nero leggerissimo pubblicizzato sulle pagine di Topolino che costava duemila lire e che, riempito d’aria, si evolveva in un vero e proprio dirigibile.

L’idea geniale venne nel 1978 al proprietario di un’azienda lucchese che produceva sacchetti di plastica, Lirio Severini, il quale assieme all’Adica Pongo – quella del DAS – lo commercializzò nelle cartolerie e nelle edicole.

Era quasi impossibile farlo volare perché la plastica era leggerissima e si rompeva facilmente, ma c’è chi giura che qualche cugino sia scomparso nella stratosfera perché rimasto attaccato al filo del bizzarro cilindro nero che riempito d’aria rappresentava un vero e proprio esperimento di fisica.

Il debutto avvenne nel giugno dell’anno successivo, in un clima in cui di avvistamenti di oggetti volanti non identificati si parlava quotidianamente.

Numerose erano in quei mesi le segnalazioni di UFO nei cieli italiani (abbiamo già trattato dei misteriosi avvistamenti nei cieli italiani e francesi nel 1954 quando fu sospesa una partita di calcio a Firenze n.d.r.).

Era il periodo di Guerre Stellari, Atlas Ufo Robot e Incontri ravvicinati del terzo tipo e in tanti, presi da psicosi marziana, scambiarono per UFO i famosi cugini sfuggiti al controllo delle famiglie.

La Stampa del 23 giugno del 1980 riportava un fatto di cronaca accaduto in Pannonia: nell’incontro di calcio fra il Lindurn e l’Osturk, due squadre di prima divisione, il portiere del Lindurn, all’ultimo minuto della partita, distratto da un oggetto volante comparso in cielo, lasciò entrare in rete un pallone innocuo calciato da oltre 30 metri.

Si scoprì solo più tardi che l’oggetto volante visto sullo stadio altro non era che un UFO Solar.

UFO Solar pallone giocattolo

Il caso dell’Ufo Solar vietato dal Ministero

La vita terrestre degli UFO Solar, però, durò solamente sette anni, poi pare che siano stati utilizzati esclusivamente su Marte, perché nel 1985 accadde qualcosa che convinse una Speciale Commissione, presieduta dall’allora Ministro dei Trasporti Claudio Signorile, a rendere fuorilegge il pallone giocattolo, tanto che il suo ritiro fu decretato a decorrere dal 29 novembre del 1985, con un provvedimento pubblicato il 21 di quel mese sulla Gazzetta Ufficiale, da parte del ministro dell’Industria Altissimo.

Il 17 agosto del 1985 il Corriere della Sera riportava un fatto misterioso che fu l’origine dei provvedimenti che portarono a rendere l’UFO Solar vietato.

Alle 16.05 di Ferragosto un Boeing 727 della Olympic Airways, la compagnia di bandiera ellenica, in volo da Zurigo ad Atene venne sfiorato, a circa 8000 metri di quota, nello spazio aereo compreso fra il radiofaro di Monteceneri, nel Canton Ticino, e quello di Trezzo d’Adda, da un oggetto di natura e dimensioni imprecisate che il comandante dell’aereo, riferì essere un oggetto volante misterioso, di colore marrone scuro e di forma allungata che sembrava un missile di tipo militare.

Si parlò di un attacco missilistico (la strage di Ustica era del giugno 1980) e i giornali riportarono anche due avvistamenti di massa di “oggetti non identificati” che allertarono le autorità, uno ad Alberobello, e l’altro ad Ancona.

Il 22 agosto, sempre il Corriere della Sera, riportava in un’intervista la versione ufficiale, spiegando che non si era trattato di un missile, ma semplicemente di un pallone giocattolo e intervistando la persona che aveva lasciato andare in cielo l’UFO Solar.

L’estratto delle dichiarazioni:

“Il giorno di Ferragosto ero in vacanza con mia moglie Rita e mia figlia Sara, di 5 anni, sul monte Pianezzo, sopra Sonvico nel Canton Ticino, a circa 850 metri altitudine.

Verso le 13.30, per far felice la bambina, ho gonfiato d’aria e liberato nel cielo il pallone-giocattolo, avevo precedentemente applicato all’Ufo Solar un’etichetta autoadesiva con le mie generalità e l’indirizzo. In pochi minuti si è levato fino ai 2000 metri del vicino Monte Bar.

Ho continuato a seguirlo con il binocolo fino a circa 3000 metri di quota, finché l’ho perso di vista mentre si dirigeva verso Sud in direzione del Monte Generoso e del confine italiano (…)

Il giorno dopo mi telefonarono due coniugi che abitano vicino ad Ancona, dicendomi di aver trovato nel giardino della villetta il “pallone-giocattolo” ormai afflosciatosi. Dall’etichetta applicata all’involucro era stato facile risalire all’autore del “lancio”. Così ebbi la conferma che il nostro “Ufo Solar” libratosi giovedì pomeriggio nel Canton Ticino aveva percorso un tragitto di 500 chilometri.

Ma poco dopo, ascoltando la radio e leggendo i giornali, ebbi anche la certezza quasi assoluta di essere stato l’involontario, sconosciuto protagonista di un episodio che aveva fatto tanto discutere”.

E fu così, che in seguito a questo fatto di cronaca, Carabinieri e Guardia di Finanza andarono a sequestrare in tutta la Penisola i pericolosi missili con allegati pericolosissimi cugini, decretando la fine del gioco e l’inizio del mito.

Speriamo non ne sappiano niente a Bruxelles e a Washington, altrimenti oltre alle sanzioni contro la Russia decideranno di mandare anche gli UFO Solar contro Putin.

Anche se, a quanto pare, i nuovi UFO Solar sono prodotti in Cina.

Il mondo nuovo

Il mondo nuovo a confronto con la libertà degli anni passati

Mentre il mondo si interroga su come finirà (e quando finirà) il conflitto tra Ucraina e Russia, l’ADN Kronos ci informa che i contagi da Covid-19 in Ucraina salgono a venticinquemila al giorno: foto d’ordinanza con gente in mascherina e rischio contagi come da prassi.

Mentre i russi inviano i famigerati ceceni in Ucraina con tanto di video che mette i brividi, i soldati italiani che vengono inviati in Romania a presidiare i confini orientali della NATO (non i nostri, ai nostri confini non si deve pensare) vengono fotografati inquadrati con la mascherina sul volto. Il politicamente corretto colpisce ancora.
Perché non sia mai che il business legato alla pandemia e il terrore di morire di Covid-19 cedano il passo. L’emergenza c’è e guai a chi lo dimentica, la salute prima di tutto.

L’Italia negli Anni Sessanta e Settanta tra stragi di Stato e birra considerata come bevanda sicura per la guida

Quanto era più genuina l’Italia negli Anni Sessanta e Settanta, quando agli italiani venivano negate verità essenziali, Piazza Fontana, Italicus, Bologna, Ustica, ma della salute ci si occupava molto meno perché ancora non era venuto in mente a nessuno di fare esperimenti sociali sul tema sanitario.
Era un’Italia diversa, più semplice, in cui veniva concesso di bere e di mettersi alla guida sostenendo che “per l’elevato apporto di sostanze energetiche facilmente assimilabili, per lo scarso contenuto alcolico e per la ricchezza di vitamine, la Birra (maiuscolo!) è certamente la bevanda più adatta per i piloti d’auto perché non turba la loro integrità neuropsichica e ne garantisce il perfetto equilibrio biologico”.
“Anche quando siete al volante la birra è la bevanda più sicura”.

Birra una bevanda sicura per chi guida

Anche quando siete al volante la birra è la bevanda più sicura

Gli italiani alla guida. Il mondo nuovo e le proibizioni di ogni genere

Ma non solo! Scordatevi il seggiolino a norma per i bimbi: perché per farli accomodare in macchina bastava una bella amaca come quella pubblicizzata dalla Chicco, alla faccia della sicurezza e della salute.

Amaca Chicco

In automobile, in giardino, in casa, sul balcone

La legge che obbliga a utilizzare i “sistemi di ritenuta per bambini”, così vengono tecnicamente definiti, in Italia ancora non era entrata in vigore (accadrà nel 1993 con il “Nuovo Codice della Strada”) e i bimbi più piccoli venivano tenuti in braccio da un passeggero diverso dal guidatore, mentre quelli un po’ più grandi, se andava bene, sedevano sul divanetto posteriore di auto sprovviste anche di cinture (l’uso è diventato obbligatorio in Italia nel 2006).
Altro che vaccinazioni di massa anche per i più piccoli e didattica a distanza.
Insomma in quegli anni, in Italia, con i papà che bevevano birra e si mettevano alla guida sistemando noi bimbi nell’amaca, abbiamo rischiato la vita così tante volte che guerre e mascherine al confronto sono poca roba.
Ma eravamo più liberi.

Il mistero delle scimmie di mare

Il mistero delle scimmie di mare è un argomento affascinante che ho già affrontato in Wembley in una stanza, il romanzo di formazione pubblicato da Minerva Edizioni nel 2010.

Questo è lo scambio di battute tra mio fratello e il sottoscritto.

“Se ti regalo mille lire, così ti compri le scimmie di mare, mi dici perché sei triste?

“Scherza, scherza. Intanto Paolo in classe mia ha un cugino più grande di lui che ha un amico che abita in un palazzo dove un tipo ha comprato le scimmie di mare e sono cresciute per davvero. A Paolo glielo ha detto proprio suo cugino.”

“Senti fesso, le scimmie di mare non esistono. Sono una storiella per babbei. Solo una stupida storiella per spillare i soldi ai creduloni come te. Sono bustine con della polverina che se la sciogli nell’acqua l’unica cosa che fa è sporcare l’acqua che diventa come l’acqua del pesce rosso quando non la cambi per qualche giorno”.

La pubblicità delle scimmie di mare trionfa su Topolino. Si vede una famigliola felice intenta a deliziarsi con degli strani pesciolini dentro un piccolo acquario. Sono dei pesci molto stravaganti, non si capisce bene a quale specie appartengano. Hanno una coda lunga, delle zampette che sembrano gambe, hanno come dei piedi palmati e delle braccia lunghe con mani simili a mani umane. A dire la verità non si capisce se sono palmate anche le mani. La testa ha come un corona con tre palle in cima, oppure tre spilloni, non si capisce bene. In più hanno occhi naso e bocca. Nella pubblicità c’è anche scritto che in un secondo le scimmie di mare fanno delle piccole uova e una volta allevate giocano tra loro continuamente.

Mangiano pochissimo e si possono anche ammaestrare. Mi sembrerebbe già un successone vederle nuotare nell’acquario.

“Eppoi pensaci: se esistono nella realtà, perché hanno usato un disegno per la pubblicità e non hanno messo la foto?”.

“Tutte scuse. Le scimmie di mare esistono”.

Tutti i bambini italiani conoscevano le famose scimmie di mare e anche i più grandicelli che leggevano Il Monello le avevano viste ritratte nella pubblicità.

E tutti erano abbastanza convinti che si potessero ottenere degli animaletti da uova liofilizzate che arrivavano per posta dagli Stati Uniti. Ricordo da bambini grandi discussioni. Avevo un amico che non credeva agli UFO, ma alle scimmie di mare credeva ciecamente. Io ero portato di più a credere che ci fossero degli esseri superiori che vivevano in altre galassie. Magari non erano verdi, non venivano da Marte e non portavano un casco da motociclista mentre navigavano nello spazio, però sarebbero pure potuti esistere. Piuttosto chissà se era vero che si trattava di esseri intelligentissimi, che leggevano il pensiero e che di tanto in tanto venivano a studiare il nostro livello di civiltà. Devo dire che non ho mai conosciuto qualcuno che abbia acquistato le scimmie di mare, un po’ come non ho mai conosciuto nessuno che abbia acquistato le altre meraviglie che si vedevano in altre pubblicità su fumetti che ho trovato a casa: occhiali per radioscopia, quelli a raggi X per vedere attraverso i muri; micro macchina fotografica originale giapponese a due rullini, tipo quella degli agenti segreti; fucile da caccia con canna pieghevole; penna radio.

L’annuncio sui giornalini era particolarmente accattivante: “Entrate nel meraviglioso mondo delle scimmie di mare. Una vasca di felicità, il miracolo della vita istantanea!”. Ma non solo: “Sempre attivissimi ed allegri, questi animaletti scherzano e giocano tra di loro. Si possono perfino ammaestrare”.

E chiudeva con un seducente: “Vi mostreremo inoltre come insegnare loro ad obbedire ai vostri ordini ed eseguire esercizi come le foche ammaestrate!”.

Poi la terribile scoperta.

Le scimmie di mare esistevano. Mentre sugli alieni continuavo a nutrire seri dubbi, sulle scimmie di mare fui costretto a ricredermi.

Mio fratello a modo suo aveva ragione.

Avevano persino un nome latino ricevuto nel Settecento da quel grande medico, botanico, scienziato che fu Carlo Linneo: Artemisia salina.

Insomma, si trattava di piccoli crostacei d’acqua salata che avevano sviluppato adattamenti a condizioni di vita particolarmente estreme (tipo quelle delle bustine americane nelle quali viaggiavano costrette in forma di uova), in grado di rimanere in uno stato di criptobiosi persino per anni, finché non si fossero presentate le condizioni favorevoli al loro sviluppo. Bastava una soluzione salina, dell’acqua di mare, insomma qualcosa di simile, perché magicamente tornassero a vivere. Pareva addirittura che queste bestioline avessero anche un’altra peculiarità, quella cioè di possedere alla nascita un solo occhio e di svilupparne con la crescita altri due.

Il famoso terzo occhio, il terzo occhio situato poco sopra la radice del naso, in un punto centrale della fronte denominato ajna in sanscrito, all’altezza del bordo superiore delle sopracciglia nelle scimmie di mare era una realtà. Rimaneva il dubbio sulla possibilità di ammaestrale e di vederle fondare una città sugli abissi per la modica cifra di 4.900 lire.

Anche perché quando vidi la copertina del numero 111 di Zagor (Acque misteriose) cominciai a sospettare che ci fosse troppa rassomiglianza tra il mostro che combatteva il nostro eroe e le famose scimmie di mare. Sospetto che divenne realtà nel numero successivo di Zagor (La capanna maledetta) e soprattutto quando scoprii il film americano intitolato Il mostro della laguna.

Non avevo più dubbi: le scimmie di mare esistevano ed erano pronte a conquistare la Terra con l’aiuto di Topolino.

Dovevo assolutamente mettermi in contatto con questi simpatici gamberetti assassini e consegnare loro mio fratello.

 

 

Quando gli UFO fecero sospendere una partita di calcio

L’11 aprile del 1954 è stato considerato il giorno più noioso della storia.

Almeno stando a quanto sostenuto da un docente di scienze politiche di Cambridge, un certo William Tunstall-Pedoe che, immettendo nel suo computer più di trecento milioni di titoli di giornali e relative notizie, ha scoperto che quel giorno non è successo granché.

Ci furono elezioni in Belgio, in Turchia nacque un futuro accademico e in Inghilterra morì un ex-calciatore dell’Oldham Athtletic.

Decisamente poca roba, se non consideriamo gli eventi lieti e quelli funesti che rimasero nell’anonimato e che non giunsero all’onore delle cronache mondiali.

A compensare la pochezza dell’11 aprile e a restituire interesse all’anno 1954, però, ci pensò un giorno di ottobre, e precisamente il 27 ottobre.

Lo scenario è quello dello Stadio Comunale della città di Firenze.

Era un mercoledì che si presentava come un qualsiasi giorno di metà settimana anche se allo stadio, per una partita del Campionato Cadetti (fino alla stagione precedente Campionato Riserve) tra i padroni di casa della Fiorentina e la Pistoiese, c’erano diecimila spettatori.

La UEFA non era ancora nata (sarebbe nata a giugno) e la Coppa dei Campioni che avrebbe allietato i mercoledì degli appassionati di calcio ancora non esisteva (la prima stagione fu disputata dal 4 settembre 1955 al 14 giugno 1956). Bisogna dire che la squadra gigliata di lì a breve avrebbe vinto il suo primo scudetto (stagione 1955-56) e che le partite del Campionato Cadetti mostravano calciatori che generalmente erano di riserva ma che spesso militavano nella prima squadra nel campionato italiano di calcio di Serie A.

Subito dopo l’intervallo di un primo tempo che si era concluso a reti inviolate, lo stadio si fece stranamente silenzioso, poi la folla iniziò a vociare: gli spettatori non stavano più guardando la partita, ma guardavano il cielo, indicando qualcosa che aveva attirato l’attenzione dei presenti.

I giocatori smisero di giocare, la palla era ferma, come pure l’arbitro.

Proprio sopra al Comunale qualcosa di strano stava volando.

Uno dei ventidue calciatori era il viola Ardico Magnini che raccontò quanto aveva visto: “Era qualcosa che sembrava un uovo (quindi non è strano che gli UFO che rapirono Enomoto Takeshi avessero un oggetto volante che pareva in raviolo ndr) che si muoveva lentamente, lentamente, lentamente. Tutti guardavano in alto e c’era anche del luccichio che scendeva dal cielo, luccichio argentato”.

Insomma la partita tra Fiorentina e Pistoiese fu interrotta per la presenza di marziani, così scrissero i giornali dell’epoca. Il commissario tecnico della Fiorentina, sul 2-2 ne approfittò e fece esordire Giuliano Sarti che diventerà un grande portiere, forse l’unico vero marziano che gli spettatori videro quel pomeriggio a Firenze.

Non fu un’isteria di massa, numerosi testimoni oculari avvistarono anche nei giorni successivi in molte città toscane raggi di luce bianca, oggetti volanti e soprattutto una sostanza appiccicosa e argentata che cadeva dal cielo. Un giornalista della Nazione di Firenze, Giorgio Batini, che disse di aver visto “palle lucenti” che si muovevano veloci verso la cupola del Duomo, raccolse diversi campioni di questa strana lanugine, arrotolandoli su un fiammifero, e li portò all’Istituto di Analisi Chimica dell’Università di Firenze. Il laboratorio, guidato dal rispettato scienziato Professor Giovanni Canneri, dopo aver sottoposto il materiale ad analisi spettrografica concluse che esso conteneva gli elementi boro, silicio, calcio e magnesio e che non era radioattivo.

Le versioni rimasero contrastanti.

Roberto Pinotti, presidente del Centro Nazionale UFO d’Italia, sbalordito come gli spettatori e i calciatori, sostenne che quella sostanza simile al cotone idrofilo e conosciuta come bambagia silicea, detta anche capelli d’angelo (traduzione letterale dell’inglese angel hair), appartenesse a qualche strano fenomeno causato dagli UFO.

Fu contattato anche un pilota dell’aeronautica americana, divenuto astronomo. Questi sostenne che “l’intero fenomeno UFO non è altro che mito, magia e superstizione, avvolto dall’idea che in qualche modo gli alieni stanno arrivando qui per salvarci o distruggerci” e che inizialmente pensò si trattasse di una palla di fuoco, di una meteora molto luminosa che si era rotta nell’atmosfera. Ma poi risultò abbastanza evidente che il fenomeno era effettivamente causato da ragnatele, ragnatele molto, molto sottili: “I ragni usano queste ragnatele come vele per spostarsi tra le posizioni. Volano semplicemente nel vento e quando la luce del sole brilla su queste ragnatele, si ottengono questi effetti visivi. Poiché alcune di queste ragnatele si rompono e cadono a terra, tutto sembra far pensare agli UFO”.

Il giorno successivo gli avvistamenti di UFO si spostarono su Roma dove, nel pomeriggio, migliaia di persone giurarono di aver visto dei dischi volanti volare nel cielo. Persino l’ambasciatrice americana Clare Boothe Luce raccontò di aver visto qualcosa di inspiegabile passare sopra Via Veneto: una specie di luna che girava nel cielo a velocità vertiginosa. Pochi minuti più tardi, nelle strade della Capitale comparve la stessa bambagia silicea già vista sopra Firenze.

Ma non furono solo Firenze e Roma le città visitate dai marziani. Nell’autunno del 1954 ci fu una vera e propria ondata di avvistamenti in tutto il mondo, ma in particolare in Europa, con una concentrazione di navicelle spaziale aliene in Francia dove si verificò circa il 70% degli avvistamenti e dove furono segnalati anche diversi incontri ravvicinati.

Erano gli Anni Cinquanta in cui nel cinema e nella letteratura si affermarono mondi paralleli, pianeti e viaggi nello spazio. In Italia nacque la rivista Urania (nel 1952), la fantascienza cominciò a essere sempre più apprezzata.

Il 10 ottobre era uscito il numero 58 della rivista di Mondadori, Arca 2000, in cui veniva narrata la storia del Secondo Diluvio Universale e il 20 ottobre era uscito il volume numero 59 intitolato Stella doppia 61 Cygni, in cui si raccontava la vita su un pianeta diverso dalla Terra.

Numerosi film raccontavano di invasione aliene e di guerre tra pianeti: negli Stati Uniti uscirono tra gli altri, Assalto alla Terra, Il mostro della laguna nera, Guerra tra pianeti, Obiettivo Terra; in Gran Bretagna uscì nelle sale cinematografiche il film 1984, tratto dall’omonimo romanzo distopico di Orwell.

Forse l’invasione aliena che fece sospendere Fiorentina-Pistoiese, e poi meravigliò i romani il giorno seguente, risentì di queste suggestioni, ma resta un mistero insoluto.

Anche se il mistero più grande rimane la presenza di ben diecimila spettatori per una partita del Campionato Cadetti disputata di mercoledì all’ora di pranzo. Questo gli scienziati non riusciranno mai a spiegarlo.

Per la cronaca, la Fiorentina vinse 6-2.

 

 

Le mot juste sulla Luna, tra improvvisazione e propaganda

È morto Tito Stagno, il giornalista che raccontò in diretta televisiva agli italiani lo sbarco sulla Luna. “Ha toccato! Ha toccato il suolo lunare”, fu il suo celebre annuncio del 20 luglio del 1969. Applausi scroscianti in studio, momenti di grande emozione. Poi, di sottofondo si sentì la voce di Ruggero Orlando che diceva: “No, non ha toccato”.

Confusione generale, poi Tito Stagno che riprende a parlare: “Signori, sono le 22 e 17 in Italia, sono le 15 e 17 a Houston, sono le 14 e 17 e New York. Per la prima volta un veicolo pilotato dall’uomo ha toccato un altro corpo celeste. Questo è frutto dell’intelligenza, della preparazione scientifica, è frutto della fede dell’uomo. A voi Houston”.

E così l’allunaggio – che io a due anni stavo seguendo con attenzione davanti al televisore, lo raccontava sempre mia madre perché ancora all’epoca pensava che fossi intelligente, oggi non lo pensa più e quindi ha smesso di raccontarlo – avvenne con un certo imbarazzo, con applausi che lo coprivano, l’imbarazzo non l’allunaggio, e la faccia di Tito Stagno che la diceva lunga sul fastidio provato in diretta televisiva.

Piccolo battibecco con Houston, poi tutto si aggiustò. Alla fine dalle analisi successive della registrazione emerse che Tito Stagno annunciò l’allunaggio con cinquantasei secondi di anticipo e Ruggero Orlando lo fece con dieci secondi di ritardo. Ma eravamo gente semplice, al Festival di Sanremo avevano vinto Bobby Solo e Iva Zanicchi con la canzone Zingara, la Fiorentina a maggio si era laureata campione d’Italia e la Lazio aveva vinto il campionato di Serie B.

Tito Stagno già nel 1961 si era occupato di temi spaziali e fu il telecronista che commentò il primo volo del cosmonauta sovietico Gagarin intorno alla Terra. Poi, nel 1966, alla vigilia del Programma Apollo, Stagno fu inviato negli Stati Uniti per un viaggio di studio e di aggiornamento e fu così che conobbe gli artefici principali della conquista della Luna informandosi su quanto sarebbe accaduto più avanti, quando l’uomo avrebbe raggiunto il nostro satellite. Chissà se già all’epoca il nostro giornalista iniziò a pensare a qualche frase a effetto da dire agli italiani in diretta televisiva, la frase giusta da tramandare ai posteri (sono sicuro che non avrebbe mai pensato al siparietto televisivo con Ruggero Orlando).

Di sicuro alla frase importante da dire al momento dello sbarco sulla Luna ci pensò la rivista Esquire che proprio per l’uscita del luglio 1969 ebbe l’idea geniale di chiedere a personaggi famosi che cosa avrebbe dovuto dire il primo astronauta nel fatidico momento.

Indubbiamente in America c’era una grande attesa attorno allo storico avvenimento: le missioni Apollo rappresentavano un successo culturale e mediatico, dal momento che nella prima metà del 1969 ve ne fu una nuova ogni sessanta giorni, una più rischiosa e avventurosa dell’altra e mentre si avvicinava lo sbarco sulla Luna, tutti si chiedevano cosa avrebbero detto gli astronauti, i primi umani a mettere piede in un luogo diverso dalla Terra nel sistema solare.

Il titolo della storia di Esquire era “Le Mot Juste for the Moon”, ovvero “La parola giusta per la Luna”, citando Gustave Flaubert, il quale disse che la maggior parte della scrittura consisteva nel trovare “le mot juste ”. Tra il serio e il faceto, Esquire – che indubbiamente non riponeva grandi speranze nella genialità dei suoi astronauti – ottenne un gran numero di risposte che probabilmente sarebbero potute essere persino più evocative di quello che disse Neil Armstrong: “That’s one small step for man, one giant leap for mankind”. Le stesse prime parole di Aldrin forse si ricordano meno bene, ma allo stesso modo risuonano attraverso i decenni poco entusiasmanti: “Beautiful view. Magnificent desolation”.

E allora, ecco correre in aiuto degli astronauti ben sessantuno personalità del mondo della cultura e dello spettacolo, pronte a suggerire il motto giusto agli astronauti, dal momento che la preoccupazione dell’Esquire non era tanto la perdita di qualche astronauta ma che gli stessi avessero riempito il vuoto intergalattico di sciocchezze e di chiacchiere inutili, uccidendo l’inglese, s’intende la lingua.

E così alcuni tra gli intervistati cercarono frasi a effetto, significative, come la filosofa e scrittrice libertaria Ayn Rand, che suggerì: “What hath man wrought!” (Che lavoro ha fatto l’uomo!), o Gwendolyn Brooks, poetessa vincitrice del Premio Pulitzer che disse: “Here there shall be peace and love” (Qui ci saranno pace e amore), mentre altri personaggi scelsero motti divertenti, come John Kenneth Galbraith, economista di Harvard il quale propose: “We will hafta pave the damn thing” (Dovremo spianare quella dannata cosa), come lo scrittore Truman Capote che rispose “If I were the first astronaut on the Moon my first remark would be: So far so good” (Fin qui tutto bene), o Isaac Asimov, grande scrittore di fantascienza che propose “Goddard, we are here!” come tributo a Robert Hutchings Goddard, che fu il padre di tutto questo, dal momento che nel 1926 lanciò il primo razzo a propellente liquido.

Ma il più divertente tra i vari personaggi coinvolti rimane Muhammad Ali, che un po’ confuso, non offrì un motto per gli astronauti sulla Luna, ma fornì istruzioni: “Bring me back a challenger, ’cause I’ve defeated everyone here on Earth”.

Insomma il viaggio sulla Luna che da sempre aveva affascinato l’uomo, da Ludovico Ariosto con l’Orlando Furioso (interessante il mot just che il cardinale Ippolito d’Este gli rivolse quando lesse l’opera: “Messere Lodovico, dove mai avete pigliato tante castronerie?”) a Jules Verne, da Albert Robida con il suo Saturnino Farandola a Italo Calvino, era giunto al suo momento più importante. La frase a effetto per certificare il momento assoluto.

In verità ci aveva già pensato Totò che nel 1958, con netto anticipo sulla tabella di marcia fu spedito sulla Luna da Steno. È di quell’anno la pellicola intitolata “Totò nella Luna”, film esilarante in pieno clima di guerra fredda e fascinazione fantascientica, in cui Totò e Ugo Tognazzi (fattorino con velleità da scrittore di romanzi di fantascienza) vengono coinvolti in una storia degna di Urania, la collana di fantascienza di Mondadori nata nel 1952.

Appena giunto sulla Luna, Totò ha davvero le mot juste per l’occasione quando, scendendo le scalette della navicella spaziale, dice: “Ma guarda un po’, alla mia età andare a finire sulla Luna, che di questa stagione sono abituato ad andare a Capri”.

Motto azzeccato ma mai quanto quello studiato dalla propaganda sovietica che, in occasione del viaggio di Yuri Gagarin pubblica un manifesto con un cosmonauta che tra le stelle scruta lontano, sovrastando le guglie di una chiesa e afferma con ardore tutto socialista: Бога нет, “Non c’è nessun Dio”.

Oggi Tito Stagno è andato al Suo cospetto.

 

Distopie e utopie di un futuro sempre più incerto.

All’inizio del Novecento nessuno aveva la più pallida idea di quello che ci saremmo dovuti aspettare nell’anno Duemila e in quelli a venire.

Con il rapido progredire dell’industrializzazione il mondo era sulla buona strada per produrre alcune delle tecnologie più audaci, creative e all’avanguardia mai inventate ma, a parte ipotesi plausibili, nessuno avrebbe potuto prevedere come la ricerca scientifica e le piattaforme digitali avrebbero trasformato il mondo in cui viviamo oggi.

Tuttavia, gli artisti e gli scrittori dell’epoca provarono a elaborare alcune idee affascinanti che descrivono come sarebbe potuto essere il futuro all’inizio del secolo Ventunesimo.

In una curiosa collezione di cartoline tedesche realizzate proprio intorno all’anno 1900 dalla Hildebrand, una ditta che produceva cioccolata, i futurologi di oltre un secolo fa immaginavano un mondo meraviglioso, fatto di case semoventi trainate da treni, mongolfiere personali per volare come Icaro e macchine per il controllo del tempo. Le idee di tecnologie quali macchine volanti o trasmissioni di immagini in movimento sembravano essere solo alcune previsioni future strane e difficilmente possibili da parte degli amanti della fantascienza. Già alla fine del XIX secolo, prima che fossero inventati viaggi aerei e sottomarini e prima che fossero ideati mezzi per viaggiare nello spazio, Jules Verne aveva descritto un mondo fantastico e immaginario. Ma non fu l’unico perché furono numerosi gli scrittori che si cimentarono nell’ipotizzare il futuro dell’umanità e in tanti pensarono che per dare un senso al mondo futuribile fosse necessario descrivere viaggi nello spazio o raccontare di un mondo finito male. Se Mark Twain nel suo ultimo romanzo, nel 1909, racconta di un surreale viaggio in Paradiso fatto con un astronave dal Capitano Stormfield, Matthew Phipps Shiel già all’inizio del secolo aveva immaginato nel suo romanzo, La nube purpurea, un mondo ormai quasi estinto per via di una nube venefica, dando vita a una tra le prime opere di fantascienza apocalittica. Inizialmente tema di cui si occupavano le religioni, la fine del mondo divenne oggetto di ricerca della scienza, insieme allo studio di eventuali soluzioni, che includevano ipotesi apocalittiche sulla fine delle civiltà. Nel progresso è insita la preoccupazione di come sarà la vita futura e la scienza quando diventa più dogmatica della Fede genera mondi distopici, ma alla fine quella che si riteneva più plausibile era l’ipotesi che la tecnologia un giorno avrebbe consentito di viaggiare nello spazio con tutti i rischi che avrebbe comportato incontrare civiltà extraterrestri. E così la fine dell’umanità sarebbe potuta coincidere anche con un’invasione aliena, come se non bastassero i tanti problemi del pianeta Terra.

Il paradosso di Fermi faceva il resto: se nel cielo sono visibili in gran numero le stelle, viene naturale immaginare che la vita possa essersi sviluppata anche su altri pianeti e molteplici civiltà extraterrestri evolute siano chissà dove nell’universo. Ma se ci sono così tante civiltà evolute, perché non ne abbiamo ancora ricevuto le prove, come trasmissioni radio, sonde o navi spaziali?

Herbert George Wells, meglio conosciuto come H. G. Wells, visionario scrittore inglese, considerato come uno dei primi scrittori di fantascienza, spesso ha affrontato quello che nella filosofia – praticamente quasi negli stessi anni – fu il tema trattato da Oswald Spengler, quello del tramonto dell’Occidente. E nel 1933 Wells lo ha fatto raccontando tanto la crisi del mondo causata dagli uomini e dalle guerra, quanto la voglia di andare a esplorare nuove galassie.

The shape of things to come è un romanzo quasi profetico in cui la civiltà ormai tramontata affronta una visione distopica: il processo di creazione di uno stato mondiale socialista governato da un’efficiente élite di scienziati, ingegneri e tecnocrati che avviene alla fine di un immaginario conflitto mondiale – che Wells pone nel 1949 – dopo una serie di ondate epidemiche, la cosiddetta “epidemia del vagabondo”, che spazza via la civiltà facendo regredire il mondo alla barbarie.

Nessun uomo ha mai paragonato la devastazione della sindrome del vagabondo alla peste nera che nel medioevo uccise più della metà della razza umana. Nessun ammalato sopravvisse alla sindrome del vagabondo, soltanto gradualmente gli uomini si resero conto che l’epidemia era finita e che la vita stava tornando alla normalità”.

Sono scenari futuribili facilmente intuibili, dittature, guerre o epidemie, quando non tutte combinate insieme, quelli che alimentano la fantasia di diversi scrittori.

Alla base della visione utopica di Wells c’è la speranza che la scienza porti anche al buon senso perché tanto più l’umanità sarà orientata al progresso scientifico, tanto più essa potrà evolversi come società nel nome del buon senso.

L’idea di Wells è chiara e non molto democratica per cui l’umanità va guidata come una classe di bambini da una casta di intelletti superiori: “Non serve a nulla domandare alle masse che cosa vogliono. Questo è l’errore della democrazia. Prima bisogna stabilire che cosa dovrebbero volere al fine di salvare la società. Poi si dovrebbe dire loro che cosa vogliono e fare in modo che lo ottengano” – affermò Wells.

Sembra di leggere il romanzo del russo Evgenij Zamjatin, scritto tra il 1919 e il 1921, intitolato Noi, capostipite del genere dell’utopia negativa (in russo Мы; in URSS fu pubblicato solamente nel 1988): gli orrori del totalitarismo sovietico di primo Novecento vengono raccontati dipingendo lo Stato come lo strumento che individua nel libero arbitrio la causa dell’infelicità che pretende di controllare le vite dei cittadini attraverso un sistema di efficienza e precisione industriale di tipo tayloristico, la teoria formulata da Frederick Taylor nella sua monografia L’organizzazione scientifica del lavoro risalente al 1911.

Altrettanto nel romanzo di Wells, durante il periodo in cui si cerca di restaurare la civiltà, tutte le proprietà private e le sovranità nazionali furono abolite. Vennero realizzati enti di controllo, coordinati da un consiglio mondiale centrale, con il fine di gestire i sopravvissuti in un clima di rigida disciplina, austerità e totale dedizione al lavoro, sedando ogni opposizione con l’intervento della Polizia Aerea.

Mi sembrava un tema di grande attualità.

Uno Stato che decide per i propri cittadini quello in cui devono credere. Questa volta nel nome della sicurezza e della salute.

E così ieri sera ho visto il film del 1936, diretto da William Cameron Menzies, che è stato tratto dal romanzo di Wells: Things to come.

Scene apocalittiche, macchine volanti, immagini di bombardamenti.

Lo scrittore H. G. Wells fu il supervisore della pellicola, la più ambiziosa e costosa produzione fantascientifica degli anni trenta, che narra gli eventi futuri di un intero secolo nella città conosciuta con il nome di Everytown.

Scenografie imponenti e un impianto solenne raccontano lo scontro tra visioni del mondo: la città del futuro, immaginata da H. G. Wells e da William Cameron Menzies, concepita secondo modelli razionalisti, puri, neoclassici, è in qualche modo la risposta alle visioni futuribili di Metropolis di Fritz Lang, ma con una visione politica opposta. Alle macchine viste come disumanizzanti e alienanti e alla riconciliazione tra padroni e operai narrata in Metropolis, Wells oppone effetti speciali molto curati per gli standard dell’epoca, in cui la sequenza della ricostruzione della città, mostra per oltre cinque minuti macchine misteriose che lavorano, spesso a tempo con le musiche scritte da Arthur Bliss, per la ricostruzione della città in avveniristico e futuristico stile art-déco.

Finché il popolo non inizia a ribellarsi quando gli scienziati decidono di andare sulla Luna. La nuova società tecnologica e democraticamente avanzata (interessanti i costumi che ricordano quelli dell’antica Grecia) si trova a dover affrontare la rivoluzione all’alba di una nuova avventura spaziale e la lotta tra chi non  si rassegna alla dittatura democratica della tecnologia sfrenata e chi invece stanco delle imposizioni chiede che “questo sia l’ultimo giorno dell’era scientifica”.

Non nutro molte speranze.

1984 è oggi. Everytown è l’Italia.

Enomoto Takeshi e i fantasmi del Castello di Vicalvi

Ieri in compagnia di Enomoto Takeshi ho fatto una passeggiata da Fontechiari fino al Castello di Vicalvi, passando nelle vicinanze di Colle Flonio, tra piccoli boschi e sentieri di campagna.

Il mio amico giapponese all’improvviso si è fatto pensieroso indicando un punto e mi ha detto: “Là, nella Contrada Colle Flonio, nel maggio del 1944 avvenne un episodio terribile”.

“Raccontatemelo, dunque” – gli ho detto mosso da curiosità.

“C’era la guerra e i tedeschi presidiavano la zona. A Vicalvi dopo l’8 settembre del 1943 si era installato un comando tedesco e il castello medievale del paesino era diventato un ospedale da campo. Avrete sicuramente visto la croce rossa sul versante che affaccia verso Atina”.

“Sì, certo, conosco la zona e anche la storia di queste parti”.

“Non mi ricordo esattamente la data, ma doveva essere verso la fine di maggio dell’anno successivo, due soldati tedeschi uccisero una coppia di civili, marito e moglie e ferirono la figlia”.

“Eravate là quando è successo?”.

“No, l’ho saputo nel 1911 quando feci un viaggio nel 1944 e incontrai l’arciprete, don Giacomo Muscedere. Ma ascoltate la storia che vi racconto”.

Fino al Castello di Vicalvi siamo rimasti a camminare in silenzio. Giunti in cima, Enomoto Takeshi mi ha raccontato una storia che, con immenso piacere trascrivo.

 

*****

 

Enomoto Takeshi amava trascorrere le sue villeggiature a Fontechiari. In realtà amava profondamente anche passare dei giorni di vacanza in diverse località dei Caraibi, ma questa storia non si svolge tra le palme delle Antille, bensì tra i boschi e le campagne della Valle di Comino. Dopo essere stato a Fontechiari per la prima volta nel 1908 nel tentativo di risolvere le richieste del visconte suo zio Enomoto Takeaki che gli aveva chiesto di occuparsi di un monaco che intendeva concludere la sua esistenza terrena attraverso il rituale dello sokushin-jōbutsu, il giapponese ci era tornato diverse volte negli anni successivi. Nell’autunno del 1911, quando l’Italia era in guerra contro l’Impero Ottomano per conquistare le regioni nordafricane della Tripolitania e della Cirenaica, complice il clima ancora mite, Enomoto Takeshi trascorse alcuni giorni in visita di piacere al suo amico arciprete don Francesco Del Bove. Arrivò molto presto di mattina e si presentò alla finestra del primo piano della canonica del suo reverendo amico.

“Mi avete fatto prendere uno spavento” – disse don Francesco, mentre raccoglieva la brocca che aveva fatto cadere.

“Non era mia intenzione, mi dispiace avervi arrecato disturbo” – gli rispose con tono cordiale il giapponese.

Don Francesco lo fece entrare dalla finestra e lo fece accomodare.

“Ma quale disturbo, siete il benvenuto!” – esclamò l’arciprete.

“Mi dispiace che la brocca si sia rotta”.

“Non è importante, era una vecchia brocca senza valore. Volete un caffè? Chiedo alla perpetua se ce lo prepara”.

“No, no grazie. L’ho preso poco fa a Londra, poi sono venuto qui in volo. Ho trovato del maltempo qua e là, vorrei solo sedermi per riposare un po’”.

Si accomodò su una poltrona e posò la sacca con la quale viaggiava.

“Qual buon vento vi porta a Fontechiari?” – domandò incuriosito l’arciprete – “Era un po’ di tempo che non venivate da queste parti”.

“Oh, giusto un piccolo viaggio di piacere. Svagarmi, fare un salto all’eremo di Sant’Onofrio…”.

“Non vi siete rassegnato? Purtroppo non è possibile permettervi di far trascorrere mille giorni nella grotta del nostro eremita per far essiccare vivo il vostro monaco”.

Emomoto Takeshi sorrise senza che fosse chiaro nell’espressione del suo volto che stesse sorridendo.

“In realtà pensavo di trascorrere qualche giorno in santa pace, magari studiando meglio il territorio e, perché no, gli archivi della vostra parrocchia”.

Don Francesco si stiracchiò e raccolse un piccolo pezzo di ceramica che era rimasto in terra. Imbarazzato, Enomoto Takeshi si infilò nella sacca e dopo qualche secondo riemerse con una brocca.

“Spero sia di vostro gradimento, è un piccolo regalo. È una brocca in porcellana realizzata nella città di Arita, a nordovest dell’isola di Kyūshū. Questi oggetti li chiamiamo Arita-yak. I collezionisti europei la chiamano porcellana di Imari, perché questi prodotti partivano per l’Occidente dal porto di Imari”.

“Siete sempre così gentile, caro amico” – disse don Francesco ricevendo il dono.

“Cosa volete vedere nell’archivio parrocchiale?” – domandò al giapponese mentre guardava il motivo rappresentato sulla brocca.

“Nulla in particolare, ma qualche giorno fa ho fatto un sogno. Ne ho parlato anche con Monsignor Gherardi”.

“Ah cara persona il vostro amico romano. E cosa avete sognato?”.

“Ho sognato esseri provenienti dallo spazio, probabilmente da un altro pianeta. E poi ho sognato una guerra e prima di fare lunghi viaggi nel tempo vorrei cercare qualche traccia nel vostro archivio. Qualche tempo fa ho sconvolto l’Eccellentissimo e Reverendissimo Monsignore raccontando di quando ero stato a Roma nel 1941 e intere zone della città erano scomparse. Devo essere più cauto in futuro”.

“Qualche volta avete spaventato anche me, ma ormai siamo abituati alle vostre bizzarrie. Ricordo le vostre ricerche sull’aldilà nelle catacombe romane. E non parliamo delle vostre fotografie!”.

“E cosa pensate di trovare nell’archivio parrocchiale?”.

“Forse una traccia dei misteriosi esseri…”.

“Amico mio, vi assicuro che non troverete nulla che parli di cosiddette intelligenze provenienti da altri mondi. Mondi che, peraltro, non esistono. Piuttosto troverete certificati di battesimo, di morte…”.

“Ecco, nel sogno c’era un soldato che mi parlava dal regno dei morti e mi diceva di andare a Vicalvi. E siccome Vicalvi è qui vicino, ecco che sono passato a fare un saluto ai vecchi amici di Schiavi, cioè di Fontechiari”.

“Allora dovrete cercare nell’archivio di Vicalvi” – gli disse scherzosamente il reverendo – “Vi accompagnerei volentieri, ma in questi giorni sono molto impegnato… Ma se volete posso ospitarvi qui a casa mia”.

“Ma no, preferisco essere libero di fare qualche piccolo esperimento. Ho portato con me anche l’Acernatore a valvole, stavolta non il solo prototipo”.

Don Francesco scosse la testa.

“Alcune volte non vi seguo. Non mi ricordo di questo, come avete detto? Acernatore?”.

“Sì, Acernatore. Si tratta di una mia piccola invenzione. È una sorta di potenziometro di intensità che va collegato al Phonoakustischer Repeater tramite un adattatore e un convertitore di onde elettromagnetiche, costituito da un antenna simile a un dipolo hertziano, collegato a delle sfere metalliche che fungono da serbatoi per le cariche. Per questo motivo lo vorrei provare”.

“E a cosa serve questo strumento del quale non ho capito nulla?”.

“Dovrebbe essermi d’aiuto per parlare con l’aldilà”.

“Siete fortunato, allora. Pare che nel Castello di Vicalvi ci sia un fantasma”.

Enomoto Takeshi si accese.

“Come un fantasma?”.

“Immagino che in ogni castello medievale che si rispetti ci sia uno spettro. A Vicalvi c’è quello di una donna che amava particolarmente tradire il marito che, quando se ne accorse, la fece morire murandola viva”.

Enomoto rimase con la bocca aperta.

“Non potete dirmi di più?”.

“Beh, mio caro amico, ora devo scendere e devo andare a dire la Messa. Spero ci rivediamo più tardi e magari vi racconto la leggenda che si tramanda” – tagliò corto don Francesco.

Enomoto Takeshi scese le scale e preferì uscire dalla porta per non dare troppo nell’occhio, anche se tutti, ormai, a Fontechiari lo conoscevano bene.

“E voi da dove sbucate?” – gli domandò la perpetua fulminandolo con uno sguardo truce.

“Sono venuto in volo” – rispose candidamente il giapponese arrossendo.

Dopo gli ultimi spiacevoli accadimenti, Enomoto Takeshi preferiva non farsi vedere in giro per il paesino, nonostante con i fontechiaresi avesse fatto la pace. Delle fotografie che aveva scattato e nelle quali comparivano spettri di paesani morti non si era più parlato e il giapponese aveva smesso di ritrarre le persone con la sua macchinetta fotografica Kodak.

Insomma, Enomoto Takeshi, salutato don Francesco decise di fare una passeggiata. Scese al fiume e s’incamminò in campagna seguendo il sentiero attraverso il quale pensava di raggiungere Vicalvi. Era una bella giornata assolata e una passeggiata era quello che ci voleva per farsi venire un bell’appetito. Da lontano vedeva il Castello e ripensava al fantasma. Non ci volle molto ad arrivare sotto le pendici del colle, salito il quale si arrivava alla fortificazione. Non incontrò anima viva e quando fu giunto in cima girò attorno al castello fino a fermarsi in un punto che gli pareva invitante. Tirò fuori la sua attrezzatura e si mise a montare i vari pezzi, seguendo un foglietto che sapeva tanto di libretto delle istruzioni. Impiegò diverso tempo per assemblare le parti e infine accese l’Acernatore. Partì un fischio che raggiunse il Lago di Posta Fibreno e tornò fino alla macchina. Svitò alcuni tubicini in rame e riprovò. Di nuovo un fischio e una luce rossa che si accese a intermittenza. Il fischio si fece più acuto e giunse fino a Fontechiari.

‘Il diagramma di temperatura dice che la macchina ha qualche problema’ – pensò il giapponese.

Prese il libretto delle istruzioni e lesse a voce alta: “Se il grafico che registra gli sbalzi che si verificano nell’insieme del lavoro della macchina supera il livello C, l’Acernatore è agitato e come calmante occorre dare dodici secondi di rallentatore magnetico”.

Spense di nuovo la macchina. Accese il visifono e si collegò con un assistente in remoto.

“L’Acernatore chiede di rallentare la pressione” – disse una voce automatica che usciva con una frazione di ritardo dalla bocca di un operatore seduto in una sala macchine.

“Cosa devo fare?” – domandò Enomoto Takeshi.

“L’Acernatore è febbricitante per via di interferenze magnetiche. Come suggerito dal libretto delle istruzioni, si consiglia di somministrare dodici secondi di rallentatore magnetico. Poi la macchina va spenta e riaccesa dopo qualche minuto”.

All’improvviso una nuvola coprì il sole.

Enomoto Takeshi, infastidito dall’ombra, alzò gli occhi e vide che una nube pian piano si muoveva verso di lui e diventava sempre più grande, fino a oscurare il sole. Il giapponese si guardò intorno perché il fenomeno atmosferico gli parve alquanto strano dal momento che il cielo era limpido ovunque. In pochi secondi sopra la sua testa apparve un enorme oggetto luminoso a forma di raviolo. Un oggetto dello stesso tipo di quello che lo rapì quando aveva circa sei anni. Attraverso un cono di luce scesero degli esseri alti circa un metro. Enomoto Takeshi, come paralizzato, parve rivivere quanto gli era accaduto nella sua infanzia; preoccupato, si guardò intorno, ma il posto era deserto. Gli omini avevano le teste molto più grandi del corpo o almeno il casco che portavano era sproporzionato rispetto al resto. Indossavano una tuta che pareva traslucida e parlavano una lingua incomprensibile e la voce usciva dalle loro pance. Come la volta precedente egli non riuscì a muoversi e un fascio di luce lo risucchiò verso lo strano oggetto volante che era rimasto a fluttuare a una ventina di metri dal suolo. Enomoto Takeshi fu fatto sedere su una poltroncina di uno strano materiale che non aveva mai visto prima. Uno degli esseri provenienti dello spazio gli mise un casco e iniziò a parlare con lui.

Quando la piccola macchina volante salì di nuovo in cielo per perdersi nello spazio, Enomoto Takeshi vide che non era passato neppure un minuto sul suo orologio. Eppure la conversazione con gli strani personaggi gli era parsa lunga e articolata anche se non ricordava una sola parola di quanto gli avessero detto. Pensò di aver avuto un’allucinazione o di essere rimasto suggestionato, ma ne approfittò per rimontare i suoi macchinari. L’Acernatore finalmente funzionava ed egli riuscì ad accenderlo senza altri intoppi.

Wer bist du?” – domandò una voce in tedesco.

Enomoto Takeshi non capì, ma avendo accanto a sé la scatoletta che gli permetteva di parlare qualsiasi lingua, la accese e la collegò anche all’Acernatore.

La voce ripeté la domanda: “Chi siete?”.

Enomoto Takeshi si voltò e si guardò attorno. Non c’era nessuno, ma sentiva distintamente la voce che si rivolgeva a lui.

“Sono Enomoto Takeshi. Sono un fotografo giapponese, crononauta nel tempo libero. Sento la vostra voce ma non vi vedo. Chi siete?”.

Lentamente, come se una leggera nebbiolina prendesse vita, si formò davanti agli occhi del giapponese un’immagine sbiadita di un uomo. In pochi secondi la figura prese maggiore consistenza e le sembianze dell’uomo si fecero più riconoscibili.

“Sono l’Obersturmführer Brunner. O meglio, ero l’Obersturmführer Brunner. Ora sono morto”.

“Quando siete morto?” – domandò impressionato Enomoto Takeshi.

“Sono morto il giorno 29 maggio dell’anno 1944”.

“Ma come è possibile? Siamo nel 1911”.

“Sì. Non sono ancora nato, eppure sono già morto. Ma per Dio non esiste il tempo. Non ci sono presente, passato e futuro. Egli vede tutto contemporaneamente”.

Enomoto Takeshi ebbe un brivido.

“Come siete morto?”.

“Il giorno 28 maggio in Posta Fibreno alcune bombe lanciate da aerei alleati caddero nei pressi del mulino. Sono morto il giorno dopo. Ho perso parte della calotta cranica e sono diventato cieco. Mi è stata anche amputata una gamba. Ho delirato per ore. Sono morto nel Castello di Vicalvi all’alba del 29 maggio”.

Enomoto Takeshi guardò il castello.

“La vedete quell’enorme croce rossa dipinta sul castello?” – disse il fantasma del tedesco.

Il giapponese guardò nuovamente verso il castello e scosse la testa.

“State delirando, non c’è nessuna croce rossa”.

“Siete voi che non la vedete. Ascoltatemi e la vedrete con il cuore”.

“Dopo il vergognoso armistizio dell’8 settembre del 1943 i militi dell’Artiglieria Contro Aerei presenti nella torre sud del castello, rimasti senza ordini, partirono. Una settimana più tardi arrivammo a Vicalvi noi tedeschi. In breve tempo organizzammo il rafforzamento delle nostre postazioni che si trovavano lungo la Linea Gustav”.

Enomoto Takeshi ascoltava con attenzione.

“Nel mese di gennaio del 1944 giunse a Vicalvi un reparto di sanità austriaco con il fine di installare un ospedale che divenne il primo dietro la linea del fronte. Nella casa di due fratelli furono collocate le sale operatorie, le corsie, le cucine e altri servizi. Le stanze per le degenze furono sistemate nella casa di una maestra. Gli alloggi per gli ufficiali medici e le relative cucine furono ricavati in ambienti di una casa vicina. C’erano un ambulatorio e anche l’alloggio dei soldati della contraerea installata in Piazza della Croce; nella casa di fronte, la farmacia, la cucina militare, la mensa e lo spaccio. Più avanti c’erano l’obitorio, un deposito di munizioni e la macelleria. In una cantina poco più oltre c’era la cella di sicurezza mentre nei vicoli c’erano alcuni degli alloggi per i soldati e il deposito di vettovaglie. Nell’edificio comunale, un locale del primo piano, dove erano ubicati gli uffici del municipio, fu adibito a studio dentistico, mentre al piano terra, accanto all’Ufficio Postale, c’era un ufficio militare. In via Severino Paniccia c’era l’Ortskommandantur”.

L’immagine si fece più diafana. Enomoto Takeshi, preoccupato, spostò una levetta dell’Acernatore.

“Non ho molto tempo. Non dipende dal vostro strumento” – gli disse il tedesco che continuò a raccontare.

“Il nostro comando si preoccupò di segnalare la presenza dell’ospedale militare di Vicalvi dipingendo delle grandi croci rosse su fondo bianco. Due di queste furono dipinte sui tetti delle case adibite a ospedale e a farmacia, ben visibili dagli aerei, una terza fu realizzata sulla parete del castello che guarda verso Atina, proprio dove vi trovate. Se chiudete gli occhi la riuscite a vedere”.

“Quando arrivarono le truppe alleate facemmo saltare in aria il serbatoio dell’acqua e la cabina di distribuzione dell’elettricità. Intanto la nostra artiglieria indirizzava i suoi colpi sul battaglione neozelandese che proseguiva l’avanzata. Eravamo rimasti in pochi in paese e con le mitragliatrici difendemmo la postazione sotto i colpi dei cannoni e degli aerei alleati che bombardavano nonostante i teli bianchi esposti dai vicalvesi. Ero sceso nella valle per raggiungere la nostra artiglieria e sono morto. Ma non mi dispiace essere morto mentre facevo il mio dovere”.

Enomoto Takeshi vide che l’immagine andava quasi scomparendo e la voce giungeva sempre più debole.

“Cosa posso fare per voi?” – chiese con voce rotta dall’emozione.

“Sono sepolto nel cimitero tedesco di Montecassino. Nel bombardamento si è perso il mio nome. Sono una delle tante croci senza nome dei soldati sepolti nel cimitero. C’è scritto solo Ein Deutscher Soldat. Dite una preghiera per me e portatemi un fiore”.

L’immagine scomparve del tutto.

Enomoto Takeshi aveva gli occhi pieni di lacrime. Spense l’Acernatore e staccò fili e tubicini. Mentre infilava il suo macchinario nella sacca vide qualcosa in terra che pareva una pistola e la raccolse. Si guardò attorno e un piccolo omino dalla testa grande e dalla tuta spaziale si avvicinò e se la fece consegnare.

“È il mio disintegratore elettromagnetico” – disse in una lingua fatta di soli numeri e suoni.