Tra genuini buongustai e radical chic. Mangiare bene a Roma (ma non solo a Roma)

Sarà che sin da quando sono bambino quella lettera “h” sbucata all’improvviso sulle insegne delle vecchie osterie per attirare i turisti non mi ha mai convinto. Sarà che quando ci penso mi viene in mente l’episodio de “I nuovi mostri” che si intitola per l’appunto “Hostaria!” (il film è del 1977) e mi vengono in mente pure i radical chic soddisfatti nel mangiare gli “zupponi alla porcara”, serviti dopo una zuffa in cucina tra Gassman e Tognazzi, amanti omosessuali e litigarelli, in cui pietanze di ogni tipo si mescolano in una cucina tradizionale ma piuttosto creativa. Sarà che mangiare bene a Roma non è più un’operazione semplice da tanti, troppi anni. Sarà che quando amici e conoscenti mi chiedono di essere indirizzati alla scoperta dei sapori più tipici della cucina romana mi sento a disagio, mi viene la sudarella e qualche volta mi sento pure male.

E così, reduce da visite a rinomati ristoranti in cui vengono proposte carbonare con panna e cubetti di pancetta affumicata, cacio e pepe con pecorino romano tagliato con parmigiano reggiano e frullato con l’olio d’oliva, ci penso e ci ripenso e sono sempre più convinto che l’attenzione alla qualità e la ricerca della serietà culinaria siano forme di grande virtù, necessarie alla sopravvivenza, specialmente nell’era dei social in cui proliferano ovunque programmi e blog sul cibo.

Serietà, onestà, cura della tradizione.

Non si mangia per abbuffarsi. Si mangia per gusto e civiltà.

Sono passati quasi cinquant’anni da “La grande abbuffata” (La grande bouffe), film cult e discusso di Marco Ferreri in cui i protagonisti decidono di suicidarsi in un’orgia di cibo e sesso. Noi ragioniamo su mangiate radical chic, cibi precotti per turisti ignari, abbuffate e, perché no, ingordigia e peccati capitali. Perché c’è differenza tra mangiare da radical chic, da turisti ignari, da ingordi e da sodali de L’Acernatore. Si creano saloni del gusto, luoghi d’eccellenza culinaria, locali per degustazioni da palati fini, ma le tradizioni locali muoiono, le trattorie spariscono, le osterie mettono la muta davanti e si trasformano. I radical chic saranno sempre felici di mangiare qualsiasi cosa abbia un nome ispirato, tanto di cucina non capiranno mai niente come non capiranno mai niente di niente; i turisti, che non si sa come scelgono sempre dei ristoranti che sembrano mense di associazioni caritatevoli e riescono a spendere come se fossero da Bulgari, saranno soddisfatti, tanto capiscono meno dei radical chic e gli ingordi continueranno a mangiare tanto per riempire ventri sgradevoli e pronti a manifestare con il meteorismo tutta la loro stupidità. Figli dell’edonismo, della società dei consumi capace solamente di distruggere e portare distruzione. L’eccesso che ferisce fino a uccidere. Il peccato di gola che uccide il corpo e l’anima, l’ingordigia deformante. Evagrio Pontico, monaco orientale di IV secolo la chiamava  “gastrimarghía”, follia del ventre. Uno dei principali vizi capitali, la sfrenatezza della gola. Quella che Basilio di Cesarea – peraltro amico di Evagrio – definiva “la madre di tutte le passioni”.

Mangiare è un bisogno primario dell’uomo; al nutrimento, però si unisce il piacere. Bisogna mangiare per vivere, ma anche godere della buona tavola, come dice San Giovanni Cassiano ai suoi monaci visto che “il piacere che si posa naturalmente sul mangiare non è un male”. Mangiare sì, ma mangiare bene, insomma. Il cibo va considerato per quello che è: un’espressione di gioia e di rendimento di grazie per la bontà delle creature donate da Dio e trasformate da quella raffinata forma culturale e da quel linguaggio dell’amore che è la cucina.

Praticamente il messaggio de L’Acernatore. I cui sodali non finiranno a cena né con i radical chic che mangiano qualsiasi cosa abbia un nome esotico-strano-tradizionale-divertente o degustano piatti decorati e senza sapore, né con i turisti che vagano per Roma come anime in pena alla ricerca di un classico ristorante per turisti. E soprattutto non finiranno all’Inferno come gli ingordi che nel sesto canto della Divina Commedia sono costretti a ingoiare fanghiglia prodotta da una incessante pioggia fredda e nera.

Amen.