Distopie e utopie di un futuro sempre più incerto.

All’inizio del Novecento nessuno aveva la più pallida idea di quello che ci saremmo dovuti aspettare nell’anno Duemila e in quelli a venire.

Con il rapido progredire dell’industrializzazione il mondo era sulla buona strada per produrre alcune delle tecnologie più audaci, creative e all’avanguardia mai inventate ma, a parte ipotesi plausibili, nessuno avrebbe potuto prevedere come la ricerca scientifica e le piattaforme digitali avrebbero trasformato il mondo in cui viviamo oggi.

Tuttavia, gli artisti e gli scrittori dell’epoca provarono a elaborare alcune idee affascinanti che descrivono come sarebbe potuto essere il futuro all’inizio del secolo Ventunesimo.

In una curiosa collezione di cartoline tedesche realizzate proprio intorno all’anno 1900 dalla Hildebrand, una ditta che produceva cioccolata, i futurologi di oltre un secolo fa immaginavano un mondo meraviglioso, fatto di case semoventi trainate da treni, mongolfiere personali per volare come Icaro e macchine per il controllo del tempo. Le idee di tecnologie quali macchine volanti o trasmissioni di immagini in movimento sembravano essere solo alcune previsioni future strane e difficilmente possibili da parte degli amanti della fantascienza. Già alla fine del XIX secolo, prima che fossero inventati viaggi aerei e sottomarini e prima che fossero ideati mezzi per viaggiare nello spazio, Jules Verne aveva descritto un mondo fantastico e immaginario. Ma non fu l’unico perché furono numerosi gli scrittori che si cimentarono nell’ipotizzare il futuro dell’umanità e in tanti pensarono che per dare un senso al mondo futuribile fosse necessario descrivere viaggi nello spazio o raccontare di un mondo finito male. Se Mark Twain nel suo ultimo romanzo, nel 1909, racconta di un surreale viaggio in Paradiso fatto con un astronave dal Capitano Stormfield, Matthew Phipps Shiel già all’inizio del secolo aveva immaginato nel suo romanzo, La nube purpurea, un mondo ormai quasi estinto per via di una nube venefica, dando vita a una tra le prime opere di fantascienza apocalittica. Inizialmente tema di cui si occupavano le religioni, la fine del mondo divenne oggetto di ricerca della scienza, insieme allo studio di eventuali soluzioni, che includevano ipotesi apocalittiche sulla fine delle civiltà. Nel progresso è insita la preoccupazione di come sarà la vita futura e la scienza quando diventa più dogmatica della Fede genera mondi distopici, ma alla fine quella che si riteneva più plausibile era l’ipotesi che la tecnologia un giorno avrebbe consentito di viaggiare nello spazio con tutti i rischi che avrebbe comportato incontrare civiltà extraterrestri. E così la fine dell’umanità sarebbe potuta coincidere anche con un’invasione aliena, come se non bastassero i tanti problemi del pianeta Terra.

Il paradosso di Fermi faceva il resto: se nel cielo sono visibili in gran numero le stelle, viene naturale immaginare che la vita possa essersi sviluppata anche su altri pianeti e molteplici civiltà extraterrestri evolute siano chissà dove nell’universo. Ma se ci sono così tante civiltà evolute, perché non ne abbiamo ancora ricevuto le prove, come trasmissioni radio, sonde o navi spaziali?

Herbert George Wells, meglio conosciuto come H. G. Wells, visionario scrittore inglese, considerato come uno dei primi scrittori di fantascienza, spesso ha affrontato quello che nella filosofia – praticamente quasi negli stessi anni – fu il tema trattato da Oswald Spengler, quello del tramonto dell’Occidente. E nel 1933 Wells lo ha fatto raccontando tanto la crisi del mondo causata dagli uomini e dalle guerra, quanto la voglia di andare a esplorare nuove galassie.

The shape of things to come è un romanzo quasi profetico in cui la civiltà ormai tramontata affronta una visione distopica: il processo di creazione di uno stato mondiale socialista governato da un’efficiente élite di scienziati, ingegneri e tecnocrati che avviene alla fine di un immaginario conflitto mondiale – che Wells pone nel 1949 – dopo una serie di ondate epidemiche, la cosiddetta “epidemia del vagabondo”, che spazza via la civiltà facendo regredire il mondo alla barbarie.

Nessun uomo ha mai paragonato la devastazione della sindrome del vagabondo alla peste nera che nel medioevo uccise più della metà della razza umana. Nessun ammalato sopravvisse alla sindrome del vagabondo, soltanto gradualmente gli uomini si resero conto che l’epidemia era finita e che la vita stava tornando alla normalità”.

Sono scenari futuribili facilmente intuibili, dittature, guerre o epidemie, quando non tutte combinate insieme, quelli che alimentano la fantasia di diversi scrittori.

Alla base della visione utopica di Wells c’è la speranza che la scienza porti anche al buon senso perché tanto più l’umanità sarà orientata al progresso scientifico, tanto più essa potrà evolversi come società nel nome del buon senso.

L’idea di Wells è chiara e non molto democratica per cui l’umanità va guidata come una classe di bambini da una casta di intelletti superiori: “Non serve a nulla domandare alle masse che cosa vogliono. Questo è l’errore della democrazia. Prima bisogna stabilire che cosa dovrebbero volere al fine di salvare la società. Poi si dovrebbe dire loro che cosa vogliono e fare in modo che lo ottengano” – affermò Wells.

Sembra di leggere il romanzo del russo Evgenij Zamjatin, scritto tra il 1919 e il 1921, intitolato Noi, capostipite del genere dell’utopia negativa (in russo Мы; in URSS fu pubblicato solamente nel 1988): gli orrori del totalitarismo sovietico di primo Novecento vengono raccontati dipingendo lo Stato come lo strumento che individua nel libero arbitrio la causa dell’infelicità che pretende di controllare le vite dei cittadini attraverso un sistema di efficienza e precisione industriale di tipo tayloristico, la teoria formulata da Frederick Taylor nella sua monografia L’organizzazione scientifica del lavoro risalente al 1911.

Altrettanto nel romanzo di Wells, durante il periodo in cui si cerca di restaurare la civiltà, tutte le proprietà private e le sovranità nazionali furono abolite. Vennero realizzati enti di controllo, coordinati da un consiglio mondiale centrale, con il fine di gestire i sopravvissuti in un clima di rigida disciplina, austerità e totale dedizione al lavoro, sedando ogni opposizione con l’intervento della Polizia Aerea.

Mi sembrava un tema di grande attualità.

Uno Stato che decide per i propri cittadini quello in cui devono credere. Questa volta nel nome della sicurezza e della salute.

E così ieri sera ho visto il film del 1936, diretto da William Cameron Menzies, che è stato tratto dal romanzo di Wells: Things to come.

Scene apocalittiche, macchine volanti, immagini di bombardamenti.

Lo scrittore H. G. Wells fu il supervisore della pellicola, la più ambiziosa e costosa produzione fantascientifica degli anni trenta, che narra gli eventi futuri di un intero secolo nella città conosciuta con il nome di Everytown.

Scenografie imponenti e un impianto solenne raccontano lo scontro tra visioni del mondo: la città del futuro, immaginata da H. G. Wells e da William Cameron Menzies, concepita secondo modelli razionalisti, puri, neoclassici, è in qualche modo la risposta alle visioni futuribili di Metropolis di Fritz Lang, ma con una visione politica opposta. Alle macchine viste come disumanizzanti e alienanti e alla riconciliazione tra padroni e operai narrata in Metropolis, Wells oppone effetti speciali molto curati per gli standard dell’epoca, in cui la sequenza della ricostruzione della città, mostra per oltre cinque minuti macchine misteriose che lavorano, spesso a tempo con le musiche scritte da Arthur Bliss, per la ricostruzione della città in avveniristico e futuristico stile art-déco.

Finché il popolo non inizia a ribellarsi quando gli scienziati decidono di andare sulla Luna. La nuova società tecnologica e democraticamente avanzata (interessanti i costumi che ricordano quelli dell’antica Grecia) si trova a dover affrontare la rivoluzione all’alba di una nuova avventura spaziale e la lotta tra chi non  si rassegna alla dittatura democratica della tecnologia sfrenata e chi invece stanco delle imposizioni chiede che “questo sia l’ultimo giorno dell’era scientifica”.

Non nutro molte speranze.

1984 è oggi. Everytown è l’Italia.

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