Enomoto Takeshi e i fantasmi del Castello di Vicalvi

Ieri in compagnia di Enomoto Takeshi ho fatto una passeggiata da Fontechiari fino al Castello di Vicalvi, passando nelle vicinanze di Colle Flonio, tra piccoli boschi e sentieri di campagna.

Il mio amico giapponese all’improvviso si è fatto pensieroso indicando un punto e mi ha detto: “Là, nella Contrada Colle Flonio, nel maggio del 1944 avvenne un episodio terribile”.

“Raccontatemelo, dunque” – gli ho detto mosso da curiosità.

“C’era la guerra e i tedeschi presidiavano la zona. A Vicalvi dopo l’8 settembre del 1943 si era installato un comando tedesco e il castello medievale del paesino era diventato un ospedale da campo. Avrete sicuramente visto la croce rossa sul versante che affaccia verso Atina”.

“Sì, certo, conosco la zona e anche la storia di queste parti”.

“Non mi ricordo esattamente la data, ma doveva essere verso la fine di maggio dell’anno successivo, due soldati tedeschi uccisero una coppia di civili, marito e moglie e ferirono la figlia”.

“Eravate là quando è successo?”.

“No, l’ho saputo nel 1911 quando feci un viaggio nel 1944 e incontrai l’arciprete, don Giacomo Muscedere. Ma ascoltate la storia che vi racconto”.

Fino al Castello di Vicalvi siamo rimasti a camminare in silenzio. Giunti in cima, Enomoto Takeshi mi ha raccontato una storia che, con immenso piacere trascrivo.

 

*****

 

Enomoto Takeshi amava trascorrere le sue villeggiature a Fontechiari. In realtà amava profondamente anche passare dei giorni di vacanza in diverse località dei Caraibi, ma questa storia non si svolge tra le palme delle Antille, bensì tra i boschi e le campagne della Valle di Comino. Dopo essere stato a Fontechiari per la prima volta nel 1908 nel tentativo di risolvere le richieste del visconte suo zio Enomoto Takeaki che gli aveva chiesto di occuparsi di un monaco che intendeva concludere la sua esistenza terrena attraverso il rituale dello sokushin-jōbutsu, il giapponese ci era tornato diverse volte negli anni successivi. Nell’autunno del 1911, quando l’Italia era in guerra contro l’Impero Ottomano per conquistare le regioni nordafricane della Tripolitania e della Cirenaica, complice il clima ancora mite, Enomoto Takeshi trascorse alcuni giorni in visita di piacere al suo amico arciprete don Francesco Del Bove. Arrivò molto presto di mattina e si presentò alla finestra del primo piano della canonica del suo reverendo amico.

“Mi avete fatto prendere uno spavento” – disse don Francesco, mentre raccoglieva la brocca che aveva fatto cadere.

“Non era mia intenzione, mi dispiace avervi arrecato disturbo” – gli rispose con tono cordiale il giapponese.

Don Francesco lo fece entrare dalla finestra e lo fece accomodare.

“Ma quale disturbo, siete il benvenuto!” – esclamò l’arciprete.

“Mi dispiace che la brocca si sia rotta”.

“Non è importante, era una vecchia brocca senza valore. Volete un caffè? Chiedo alla perpetua se ce lo prepara”.

“No, no grazie. L’ho preso poco fa a Londra, poi sono venuto qui in volo. Ho trovato del maltempo qua e là, vorrei solo sedermi per riposare un po’”.

Si accomodò su una poltrona e posò la sacca con la quale viaggiava.

“Qual buon vento vi porta a Fontechiari?” – domandò incuriosito l’arciprete – “Era un po’ di tempo che non venivate da queste parti”.

“Oh, giusto un piccolo viaggio di piacere. Svagarmi, fare un salto all’eremo di Sant’Onofrio…”.

“Non vi siete rassegnato? Purtroppo non è possibile permettervi di far trascorrere mille giorni nella grotta del nostro eremita per far essiccare vivo il vostro monaco”.

Emomoto Takeshi sorrise senza che fosse chiaro nell’espressione del suo volto che stesse sorridendo.

“In realtà pensavo di trascorrere qualche giorno in santa pace, magari studiando meglio il territorio e, perché no, gli archivi della vostra parrocchia”.

Don Francesco si stiracchiò e raccolse un piccolo pezzo di ceramica che era rimasto in terra. Imbarazzato, Enomoto Takeshi si infilò nella sacca e dopo qualche secondo riemerse con una brocca.

“Spero sia di vostro gradimento, è un piccolo regalo. È una brocca in porcellana realizzata nella città di Arita, a nordovest dell’isola di Kyūshū. Questi oggetti li chiamiamo Arita-yak. I collezionisti europei la chiamano porcellana di Imari, perché questi prodotti partivano per l’Occidente dal porto di Imari”.

“Siete sempre così gentile, caro amico” – disse don Francesco ricevendo il dono.

“Cosa volete vedere nell’archivio parrocchiale?” – domandò al giapponese mentre guardava il motivo rappresentato sulla brocca.

“Nulla in particolare, ma qualche giorno fa ho fatto un sogno. Ne ho parlato anche con Monsignor Gherardi”.

“Ah cara persona il vostro amico romano. E cosa avete sognato?”.

“Ho sognato esseri provenienti dallo spazio, probabilmente da un altro pianeta. E poi ho sognato una guerra e prima di fare lunghi viaggi nel tempo vorrei cercare qualche traccia nel vostro archivio. Qualche tempo fa ho sconvolto l’Eccellentissimo e Reverendissimo Monsignore raccontando di quando ero stato a Roma nel 1941 e intere zone della città erano scomparse. Devo essere più cauto in futuro”.

“Qualche volta avete spaventato anche me, ma ormai siamo abituati alle vostre bizzarrie. Ricordo le vostre ricerche sull’aldilà nelle catacombe romane. E non parliamo delle vostre fotografie!”.

“E cosa pensate di trovare nell’archivio parrocchiale?”.

“Forse una traccia dei misteriosi esseri…”.

“Amico mio, vi assicuro che non troverete nulla che parli di cosiddette intelligenze provenienti da altri mondi. Mondi che, peraltro, non esistono. Piuttosto troverete certificati di battesimo, di morte…”.

“Ecco, nel sogno c’era un soldato che mi parlava dal regno dei morti e mi diceva di andare a Vicalvi. E siccome Vicalvi è qui vicino, ecco che sono passato a fare un saluto ai vecchi amici di Schiavi, cioè di Fontechiari”.

“Allora dovrete cercare nell’archivio di Vicalvi” – gli disse scherzosamente il reverendo – “Vi accompagnerei volentieri, ma in questi giorni sono molto impegnato… Ma se volete posso ospitarvi qui a casa mia”.

“Ma no, preferisco essere libero di fare qualche piccolo esperimento. Ho portato con me anche l’Acernatore a valvole, stavolta non il solo prototipo”.

Don Francesco scosse la testa.

“Alcune volte non vi seguo. Non mi ricordo di questo, come avete detto? Acernatore?”.

“Sì, Acernatore. Si tratta di una mia piccola invenzione. È una sorta di potenziometro di intensità che va collegato al Phonoakustischer Repeater tramite un adattatore e un convertitore di onde elettromagnetiche, costituito da un antenna simile a un dipolo hertziano, collegato a delle sfere metalliche che fungono da serbatoi per le cariche. Per questo motivo lo vorrei provare”.

“E a cosa serve questo strumento del quale non ho capito nulla?”.

“Dovrebbe essermi d’aiuto per parlare con l’aldilà”.

“Siete fortunato, allora. Pare che nel Castello di Vicalvi ci sia un fantasma”.

Enomoto Takeshi si accese.

“Come un fantasma?”.

“Immagino che in ogni castello medievale che si rispetti ci sia uno spettro. A Vicalvi c’è quello di una donna che amava particolarmente tradire il marito che, quando se ne accorse, la fece morire murandola viva”.

Enomoto rimase con la bocca aperta.

“Non potete dirmi di più?”.

“Beh, mio caro amico, ora devo scendere e devo andare a dire la Messa. Spero ci rivediamo più tardi e magari vi racconto la leggenda che si tramanda” – tagliò corto don Francesco.

Enomoto Takeshi scese le scale e preferì uscire dalla porta per non dare troppo nell’occhio, anche se tutti, ormai, a Fontechiari lo conoscevano bene.

“E voi da dove sbucate?” – gli domandò la perpetua fulminandolo con uno sguardo truce.

“Sono venuto in volo” – rispose candidamente il giapponese arrossendo.

Dopo gli ultimi spiacevoli accadimenti, Enomoto Takeshi preferiva non farsi vedere in giro per il paesino, nonostante con i fontechiaresi avesse fatto la pace. Delle fotografie che aveva scattato e nelle quali comparivano spettri di paesani morti non si era più parlato e il giapponese aveva smesso di ritrarre le persone con la sua macchinetta fotografica Kodak.

Insomma, Enomoto Takeshi, salutato don Francesco decise di fare una passeggiata. Scese al fiume e s’incamminò in campagna seguendo il sentiero attraverso il quale pensava di raggiungere Vicalvi. Era una bella giornata assolata e una passeggiata era quello che ci voleva per farsi venire un bell’appetito. Da lontano vedeva il Castello e ripensava al fantasma. Non ci volle molto ad arrivare sotto le pendici del colle, salito il quale si arrivava alla fortificazione. Non incontrò anima viva e quando fu giunto in cima girò attorno al castello fino a fermarsi in un punto che gli pareva invitante. Tirò fuori la sua attrezzatura e si mise a montare i vari pezzi, seguendo un foglietto che sapeva tanto di libretto delle istruzioni. Impiegò diverso tempo per assemblare le parti e infine accese l’Acernatore. Partì un fischio che raggiunse il Lago di Posta Fibreno e tornò fino alla macchina. Svitò alcuni tubicini in rame e riprovò. Di nuovo un fischio e una luce rossa che si accese a intermittenza. Il fischio si fece più acuto e giunse fino a Fontechiari.

‘Il diagramma di temperatura dice che la macchina ha qualche problema’ – pensò il giapponese.

Prese il libretto delle istruzioni e lesse a voce alta: “Se il grafico che registra gli sbalzi che si verificano nell’insieme del lavoro della macchina supera il livello C, l’Acernatore è agitato e come calmante occorre dare dodici secondi di rallentatore magnetico”.

Spense di nuovo la macchina. Accese il visifono e si collegò con un assistente in remoto.

“L’Acernatore chiede di rallentare la pressione” – disse una voce automatica che usciva con una frazione di ritardo dalla bocca di un operatore seduto in una sala macchine.

“Cosa devo fare?” – domandò Enomoto Takeshi.

“L’Acernatore è febbricitante per via di interferenze magnetiche. Come suggerito dal libretto delle istruzioni, si consiglia di somministrare dodici secondi di rallentatore magnetico. Poi la macchina va spenta e riaccesa dopo qualche minuto”.

All’improvviso una nuvola coprì il sole.

Enomoto Takeshi, infastidito dall’ombra, alzò gli occhi e vide che una nube pian piano si muoveva verso di lui e diventava sempre più grande, fino a oscurare il sole. Il giapponese si guardò intorno perché il fenomeno atmosferico gli parve alquanto strano dal momento che il cielo era limpido ovunque. In pochi secondi sopra la sua testa apparve un enorme oggetto luminoso a forma di raviolo. Un oggetto dello stesso tipo di quello che lo rapì quando aveva circa sei anni. Attraverso un cono di luce scesero degli esseri alti circa un metro. Enomoto Takeshi, come paralizzato, parve rivivere quanto gli era accaduto nella sua infanzia; preoccupato, si guardò intorno, ma il posto era deserto. Gli omini avevano le teste molto più grandi del corpo o almeno il casco che portavano era sproporzionato rispetto al resto. Indossavano una tuta che pareva traslucida e parlavano una lingua incomprensibile e la voce usciva dalle loro pance. Come la volta precedente egli non riuscì a muoversi e un fascio di luce lo risucchiò verso lo strano oggetto volante che era rimasto a fluttuare a una ventina di metri dal suolo. Enomoto Takeshi fu fatto sedere su una poltroncina di uno strano materiale che non aveva mai visto prima. Uno degli esseri provenienti dello spazio gli mise un casco e iniziò a parlare con lui.

Quando la piccola macchina volante salì di nuovo in cielo per perdersi nello spazio, Enomoto Takeshi vide che non era passato neppure un minuto sul suo orologio. Eppure la conversazione con gli strani personaggi gli era parsa lunga e articolata anche se non ricordava una sola parola di quanto gli avessero detto. Pensò di aver avuto un’allucinazione o di essere rimasto suggestionato, ma ne approfittò per rimontare i suoi macchinari. L’Acernatore finalmente funzionava ed egli riuscì ad accenderlo senza altri intoppi.

Wer bist du?” – domandò una voce in tedesco.

Enomoto Takeshi non capì, ma avendo accanto a sé la scatoletta che gli permetteva di parlare qualsiasi lingua, la accese e la collegò anche all’Acernatore.

La voce ripeté la domanda: “Chi siete?”.

Enomoto Takeshi si voltò e si guardò attorno. Non c’era nessuno, ma sentiva distintamente la voce che si rivolgeva a lui.

“Sono Enomoto Takeshi. Sono un fotografo giapponese, crononauta nel tempo libero. Sento la vostra voce ma non vi vedo. Chi siete?”.

Lentamente, come se una leggera nebbiolina prendesse vita, si formò davanti agli occhi del giapponese un’immagine sbiadita di un uomo. In pochi secondi la figura prese maggiore consistenza e le sembianze dell’uomo si fecero più riconoscibili.

“Sono l’Obersturmführer Brunner. O meglio, ero l’Obersturmführer Brunner. Ora sono morto”.

“Quando siete morto?” – domandò impressionato Enomoto Takeshi.

“Sono morto il giorno 29 maggio dell’anno 1944”.

“Ma come è possibile? Siamo nel 1911”.

“Sì. Non sono ancora nato, eppure sono già morto. Ma per Dio non esiste il tempo. Non ci sono presente, passato e futuro. Egli vede tutto contemporaneamente”.

Enomoto Takeshi ebbe un brivido.

“Come siete morto?”.

“Il giorno 28 maggio in Posta Fibreno alcune bombe lanciate da aerei alleati caddero nei pressi del mulino. Sono morto il giorno dopo. Ho perso parte della calotta cranica e sono diventato cieco. Mi è stata anche amputata una gamba. Ho delirato per ore. Sono morto nel Castello di Vicalvi all’alba del 29 maggio”.

Enomoto Takeshi guardò il castello.

“La vedete quell’enorme croce rossa dipinta sul castello?” – disse il fantasma del tedesco.

Il giapponese guardò nuovamente verso il castello e scosse la testa.

“State delirando, non c’è nessuna croce rossa”.

“Siete voi che non la vedete. Ascoltatemi e la vedrete con il cuore”.

“Dopo il vergognoso armistizio dell’8 settembre del 1943 i militi dell’Artiglieria Contro Aerei presenti nella torre sud del castello, rimasti senza ordini, partirono. Una settimana più tardi arrivammo a Vicalvi noi tedeschi. In breve tempo organizzammo il rafforzamento delle nostre postazioni che si trovavano lungo la Linea Gustav”.

Enomoto Takeshi ascoltava con attenzione.

“Nel mese di gennaio del 1944 giunse a Vicalvi un reparto di sanità austriaco con il fine di installare un ospedale che divenne il primo dietro la linea del fronte. Nella casa di due fratelli furono collocate le sale operatorie, le corsie, le cucine e altri servizi. Le stanze per le degenze furono sistemate nella casa di una maestra. Gli alloggi per gli ufficiali medici e le relative cucine furono ricavati in ambienti di una casa vicina. C’erano un ambulatorio e anche l’alloggio dei soldati della contraerea installata in Piazza della Croce; nella casa di fronte, la farmacia, la cucina militare, la mensa e lo spaccio. Più avanti c’erano l’obitorio, un deposito di munizioni e la macelleria. In una cantina poco più oltre c’era la cella di sicurezza mentre nei vicoli c’erano alcuni degli alloggi per i soldati e il deposito di vettovaglie. Nell’edificio comunale, un locale del primo piano, dove erano ubicati gli uffici del municipio, fu adibito a studio dentistico, mentre al piano terra, accanto all’Ufficio Postale, c’era un ufficio militare. In via Severino Paniccia c’era l’Ortskommandantur”.

L’immagine si fece più diafana. Enomoto Takeshi, preoccupato, spostò una levetta dell’Acernatore.

“Non ho molto tempo. Non dipende dal vostro strumento” – gli disse il tedesco che continuò a raccontare.

“Il nostro comando si preoccupò di segnalare la presenza dell’ospedale militare di Vicalvi dipingendo delle grandi croci rosse su fondo bianco. Due di queste furono dipinte sui tetti delle case adibite a ospedale e a farmacia, ben visibili dagli aerei, una terza fu realizzata sulla parete del castello che guarda verso Atina, proprio dove vi trovate. Se chiudete gli occhi la riuscite a vedere”.

“Quando arrivarono le truppe alleate facemmo saltare in aria il serbatoio dell’acqua e la cabina di distribuzione dell’elettricità. Intanto la nostra artiglieria indirizzava i suoi colpi sul battaglione neozelandese che proseguiva l’avanzata. Eravamo rimasti in pochi in paese e con le mitragliatrici difendemmo la postazione sotto i colpi dei cannoni e degli aerei alleati che bombardavano nonostante i teli bianchi esposti dai vicalvesi. Ero sceso nella valle per raggiungere la nostra artiglieria e sono morto. Ma non mi dispiace essere morto mentre facevo il mio dovere”.

Enomoto Takeshi vide che l’immagine andava quasi scomparendo e la voce giungeva sempre più debole.

“Cosa posso fare per voi?” – chiese con voce rotta dall’emozione.

“Sono sepolto nel cimitero tedesco di Montecassino. Nel bombardamento si è perso il mio nome. Sono una delle tante croci senza nome dei soldati sepolti nel cimitero. C’è scritto solo Ein Deutscher Soldat. Dite una preghiera per me e portatemi un fiore”.

L’immagine scomparve del tutto.

Enomoto Takeshi aveva gli occhi pieni di lacrime. Spense l’Acernatore e staccò fili e tubicini. Mentre infilava il suo macchinario nella sacca vide qualcosa in terra che pareva una pistola e la raccolse. Si guardò attorno e un piccolo omino dalla testa grande e dalla tuta spaziale si avvicinò e se la fece consegnare.

“È il mio disintegratore elettromagnetico” – disse in una lingua fatta di soli numeri e suoni.

 

 

 

 

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