Gli otaku del 2000, i millennials e la cultura dell’entertainment: manga, anime e videogiochi

Devo ammettere che il tema della chiacchierata alla quale sono stato con immenso piacere invitato a Cassinofantastica mi lascia discretamente insensibile, forse per una semplice questione di età – mi sono allontanato abbastanza dal giorno della mia nascita – e forse per ragioni culturali che del Giappone mi fanno ammirare le epoche che lo hanno reso grande fino alla Seconda Guerra Mondiale. Poi, sinceramente, del Paese del Sol Levante ho perso le tracce, salvando almeno per mia ignoranza poche singole cose isolate, tra le quali gli insegnamenti di Mishima Yukio che del Giappone doveva amare e apprezzare le stesse cose che amo e apprezzo io.

Del Giappone contemporaneo conosco davvero poco e quello che conosco, generalmente, si rifà allo spirito millenario del bushido. 

Di anime, manga e videogiochi non so molto. Tantomeno di travestimenti da Pokemon, visto che l’ultima volta che mia madre provò a vestirmi da Zorro disegnandomi i famosi baffetti del giustiziere mascherato con la sua matita per gli occhi, covai per giorni un malsano intento di liberarmi di lei.

La mia infanzia è trascorsa giocando a pallone, attaccando sull’album le Figurine Panini o scambiandole con gli amichetti, oppure giocando a Subbuteo, la più riuscita replica di calcio da tavolo mai pensata da mente umana. Ma in qualche modo sono stato un otaku anche io, come tanti bambini e adolescenti della mia generazione: la Generazione X oppure la Generazione che oggi gli adolescenti tiktoker chiamano dei boomer.

Otaku è un termine della lingua giapponese che più o meno (mi perdonino gli studiosi di lingua giapponese e i sociologi) indica una sottocultura di appassionati non solo di manga, anime, e altri prodotti ad essi correlati, ma più in generale, di diversi argomenti. Io sono stato e temo di esserlo ancora un otaku del calcio in bianco e nero con tutte le manie che comporta essere un appassionato di qualcosa. Negli anni Settanta in cui sono stato bambino e negli Ottanta in cui sono stato adolescente, le mie passioni non sfioravano nemmeno lontanamente il tema proposto dalla nostra chiacchierata. Le serie TV ancora si chiamavano sceneggiati televisivi – ricordo Il segno del comando, La baronessa di Carini e Belfagor – la televisione fino al 1976 (almeno per me e per la mia famiglia) non aveva il sistema PAL Color e i cartoni animati prevedevano una programmazione di Gatto Silvestro e affini. Quando arrivarono i primi robot la mia fantasia era mossa da altro e solamente la canzone dei Kraftwerk, The robots, e la band  francese che si chiamava Rockets mi facevano pensare agli automi. Atlas Ufo Robot, conosciuto anche come Goldrake, che comparve sugli schermi delle tv italiane nello stesso anno dell’album dei Kraftwerk The man-machine, il 1978, non poteva competere con l’amore che nutrivo per la Lazio e nemmeno con l’avventura della nazionale italiana di calcio che ben figurò ai Campionati Mondiali in Argentina. Del Giappone calcistico non c’era traccia e se la sua nazionale non figurava né sull’album Panini, né sul catalogo a colori del Subbuteo, sicuramente non esisteva. 

Una cosa, però, va detta per tutta onestà. Quando ho terminato la prima storia di Enomoto Takeshi che appare sulla raccolta di racconti brevi intitolata Di efferati delitti e d’altre storie macabre, le mie figlie mi hanno fatto notare una cosa che mi era completamente sfuggita. La sacca dalla quale Enomoto Takeshi estrae sakè – ma non solo sakè – ricorda la pancia dalla quale Doraemon estrae i suoi chiusky. 

Probabilmente un otaku di Doraemon, da bambino, in qualche modo lo sono stato anche io. 

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