The Match of my Life – Pino Wilson

Oggi Pino Wilson ha reso l’anima a Dio. Era il Capitano della prima Lazio che ho visto giocare e che mi ha fatto innamorare. Avevamo fatto amicizia e dalle nostre chiacchierate era nato questo pezzo, scritto per un libro che non ho mai finito di scrivere, in cui i campioni del passato raccontavano la partita più importante della loro vita. Pino scelse di raccontare le partite che disputò contro le squadre inglesi.

 

I tifosi dell’Ipswich Town che mercoledì 24 ottobre 1973 acquistarono per dieci pence il programma della partita tra la squadra di Portman Road e la Società Sportiva Lazio valevole per la gara d’andata del secondo turno della Coppa UEFA, lessero con particolare interesse la presentazione di due calciatori della compagine capitolina per via del loro ‘british background’: Giorgio Chinaglia e Giuseppe Wilson.

Il primo era stato portato da piccolo in Gran Bretagna. Il padre aveva aperto un ristorante italiano a Cardiff e Giorgione aveva indossato la maglia dei rivali dello Swansea in Quarta Divisione.

Il secondo, nato a Darlington da padre inglese e madre italiana, rappresentava per Gerry Harrison, commentatore di Anglia TV che aveva una colonna anche sui match programmes ufficiali dell’Ipswich Town, il classico libero all’italiana.

L’Italia è il Paese che ha dato al mondo l’infame catenaccio” – scriveva il commentatore inglese nel programma della partita – “un sistema difensivo frustrante e deprimente che prevede una marcatura per ogni difensore e un battitore libero che raddoppia la marcatura in caso di emergenza. Fortunatamente non abbiamo mai visto una squadra britannica usare questa tattica sebbene nel campionato ci sia stata una discreta attenzione a curare la fase difensiva. La Lazio, senza dubbio, ci svelerà le complessità del catenaccio e il modo in cui gioca un libero, grazie al giocatore nato a Darlington, Wilson, che generalmente opera in quel ruolo.

Al di là delle disquisizioni più o meno tecniche riguardo al catenaccio e alla Lazio di Maestrelli, in realtà, il commentatore inglese non si sbagliava circa l’importanza del ruolo ricoperto da Wilson nella difesa della squadra romana.

Infatti, se la Lazio – considerata dagli inglesi un po’ l’Ipswich Town d’Italia, la squadra rivelazione dell’anno, brillante e volitiva, capace di sfidare Juventus e Milan fino all’ultima giornata di campionato – aveva incassato nella passata stagione solo sedici reti, molto era merito proprio di Pino Wilson, l’“inglese”.

E non lasciatevi trarre in inganno dalle loro prestazioni nell’Anglo-Italiano” – continuava Harrison – “i clubs italiani sono famosi per gli esperimenti che fanno durante il Torneo. Quest’anno la Lazio ha pareggiato in casa con Manchester United e Luton Town e in Inghilterra ha perso con l’Hull City e con il Crystal Palace”.

Contro l’Ipswich Town, Wilson giocò libero, proprio come da presentazione.

“In realtà fino a quel momento i tifosi inglesi mi avevano visto giocare come difensore in marcatura, col numero tre sulle spalle. Con Papadopulo costituivamo due marcatori veramente difficili da superare. Contro l’Ipswich, invece, in difesa eravamo Facco con il numero due e Martini con il numero tre; Giancarlo Oddi con il cinque e io con il numero quattro. Fu una pessima partita per la nostra difesa”.

La Lazio di Wilson è una formazione che è appena tornata alla ribalta internazionale. Fa simpatia in Inghilterra ed è considerata un giantkiller, cioè un’ammazza-grandi.

Ma soprattutto la Lazio piace grazie ai due campioni “inglesi”. Nell’official souvenir handbook  che presenta l’Anglo-Italian inter-league clubs competition del 1973 una battuta affettuosa è proprio riservata a Wilson: “He now finds the Neapolitan accent more facile than the accents of the North East, l’accento napoletano gli viene più facile di quelli del nord-est dell’Inghilterra ”.

“Credo sia normale, avevo sei mesi quando lasciai l’Inghilterra. Sento molto le mie origine britanniche ma a dire la verità a Darlington non ci sono mai tornato. Avevo l’intenzione di andare a visitare la città in cui ero nato, ma quando giocammo a Sunderland furono i miei cugini a venirmi a trovare”.

Sunderland dista da Darlington una ventina di chilometri e Wilson sente l’aria di casa.

“Ho sempre subito il fascino dell’Inghilterra e del calcio inglese. Da ragazzo ero particolarmente innamorato del Manchester United, una squadra composta da grandi calciatori, l’Arsenal, invece, mi era meno simpatica. Una volta un giornalista mi chiese un giudizio circa un’eventuale convocazione con la maglia della nazionale inglese. Certamente indossare la maglia dei Tre Leoni sarebbe stato un sogno. Però ero molto felice di giocare in Italia con la Lazio, società alla quale dovevo tantissimo  e mi sentivo piuttosto pronto a indossare la maglia azzurra”.

Wilson quando gioca contro le squadre inglesi si esalta, ma i suoi compagni di squadra non sono da meno. Tra il 1970 e il 1973, tra partite di Coppa delle Fiere, Torneo Anglo-Italiano e Coppa Uefa, la Lazio visita la terra d’Albione diverse volte. Incontra Sunderland, Doncaster Rovers, Wolverhampton, Hull City, Arsenal, Crystal Palace e Ipswich Town.

“Saranno state le mie origini, ma contro le squadre inglesi ho sempre giocato partite molto intense, non ci stavo proprio a perdere, nemmeno in amichevole” – ricorda il Capitano della Lazio del primo scudetto. “O forse era solo l’atmosfera che si respirava negli stadi inglesi. Ho disputato diverse partite in Gran Bretagna. Alcune valevoli per le Coppe europee, altre per il Torneo Anglo-Italiano di Gigi Peronace. È vero che noi italiani partecipavamo per fare un po’ di prove, ma l’impegno non mancava mai. Come poteva essere altrimenti? Giocare contro le squadre inglesi significava trovarsi contro giocatori molto motivati e tifosi molto caldi. E anche una stampa spesso ostile. Il nostro allenatore, Lorenzo, la prima volta che arrivammo in aeroporto in Inghilterra, fu avvicinato da un giornalista che gli chiese: ‘Coach?’ Lorenzo un po’ preoccupato gli rispose ‘No, friend, tourist’. In Inghilterra gli stadi erano sempre pieni e il tifo era eccezionale. Mi ricordo che a Wolverhampton dove perdemmo per uno a zero, rimasi molto colpito dal calore del pubblico ma anche dalla loro compostezza. Eravamo vicinissimi agli spettatori e l’ordine pubblico era mantenuto solo da un pugno di poliziotti con i cani. Ogni tanto mi giravo a controllare che nessuno entrasse in campo”.

Wilson sfoglia il programma della partita giocata dalla Lazio contro i Wolves. Si sofferma sulla fotografia in bianco e nero della squadra inglese. Sorride e punta il dito su Mike Bailey. “Questo qui con i basettoni me lo ricordo, giocava in difesa”. Non mi dice, però, che è Bailey a segnare l’unico gol della partita. Gli indico Jim Mc Calliog, un giocatore mingherlino che giocò la partita contro la Lazio con il numero sette sulla maglia, e gli dico che gestisce il King’s Arms Pub a Fenwick, nell’Ayrshire in Scozia e che a breve lo andrò a trovare.

“Altri tempi, altra gente” – commenta scuotendo la testa. Poi torniamo a parlare dell’Inghilterra.

Gli stadi inglesi lo affascinano in maniera particolare.

“Il 23 settembre 1970 giocammo ad Higbury, uno stadio meraviglioso, così come incantevole era il colpo d’occhio sulle tribune. I Gunners erano più forti di noi e riuscirono a imporsi per due reti a zero. Un fatto è certo: la Lazio di quegli anni era una squadra tenace e giocava anche un buon calcio. Però dall’Inghilterra siamo sempre tornati sconfitti nelle partite di Coppa. Vincemmo solo una partita amichevole contro il Doncaster Rovers”.

I Rovers erano una squadra di metà classifica della Terza Divisione. La Lazio giocò un’amichevole al Belle Vue e vinse quattro a zero. Si trattava di un allenamento tra due partite disputate in Gran Bretagna per l’Anglo-italiano, la sconfitta al Roker Park di Sunderland per tre a uno e quella per uno a zero al Molineaux Stadium di Wolverhampton.

“In casa, però, specialmente nelle partite di una certa importanza, nonostante le squadre inglesi fossero più blasonate e più forti di noi, dominavamo. E qualche volta in campo volavano colpi proibiti. Dovevamo farci rispettare”.

È il caso di due partite passate alla storia più per le risse scoppiate in campo e fuori che per il risultato finale, Lazio-Arsenal disputata all’Olimpico il 16 settembre 1970 e Lazio-Ipswich Town giocata sempre in casa il 7 novembre 1973.

“Certamente uno dei tratti dominanti degli inglesi era quello di interpretare il calcio in chiave molto agonistica. Entrare decisi, ma senza cattiveria, era uno dei loro modi di far capire che l’avversario era stimato e rispettato. A noi non sembrava vero di poter giocare duro. Certo, qualche volte la partita degenerava e ci scappava la rissa. Diciamo pure spesso”.

Ci sono anche dei precedenti che nello spogliatoio della Lazio si tramandano. Nel 1965 i biancocelesti avevano incontrato in amichevole l’Arsenal. Una partita disputata allo Stadio Flaminio al cospetto di tremila spettatori, domenica 2 maggio.

La Gazzetta dello Sport l’indomani aveva titolato: “Deplorevoli scorrettezze dei giocatori biancazzurri”. E nel pezzo si leggeva così: “Una prova di forza degli inglesi dell’Arsenal, che si sono imposti nettamente fornendo una vera e propria lezione di pratico e rapido gioco. La Lazio superata anche sul piano atletico, ha finito per fare la figura della squadra di provincia che, non trovando il pallone, piglia di mira le gambe degli avversari”. Zanetti, Carosi, Vitali e Renna, dice la Gazzetta, “nelle loro reazioni, si sono trovati a commettere scorrettezze da espulsione”.

Wilson non faceva parte di quella squadra ma Mc Lintock, Armstrong e Governato dopo cinque anni si ritrovarono di nuovo a Roma in una partita di Coppa delle Fiere.

“Con l’Arsenal giocammo la prima partita in casa. Erano i trentaduesimi di Finale della Coppa delle Fiere della stagione 1970-71. L’Arsenal era la squadra detentrice del trofeo e anche la favorita alla vittoria finale. Parliamo dell’Arsenal del double, campionato e FA Cup vinti nella stagione 1970-71. Loro avevano una squadra di campioni affermati, penso a George Graham, ad Armstrong e a Radford che all’Olimpico ci segnò due reti. Il primo tempo si chiuse zero a zero. Avevamo giocato bene e avevamo avuto le nostre occasioni per passare in vantaggio. Poi, tornati dagli spogliatoi, in pochi minuti finimmo sotto di due reti. Allora iniziammo nuovamente a giocare. Prima l’arbitro non ci assegnò un vistosissimo rigore per fallo di McLintock su Governato; poi non applicò la regola del vantaggio quando Chinaglia segnò dopo che era stato commesso fallo su Nanni. Cominciammo a innervosirci e altrettanto fecero i nostri tifosi sulle tribune. Dalla curva Nord entrarono in campo alcuni giovani che furono prontamente bloccati dalle forze dell’ordine. Riuscimmo a pareggiare grazie alla nostra rabbia e a una prova davvero eccellente. Ma non era finita lì”.

Terminata la partita, le due squadre si erano ritrovate al ristorante Augustea, in via della Frezza.

I giocatori della Lazio masticavano amaro e l’aria era tesa.

“Ad un certo punto, nel ristorante scoppiò una zuffa incredibile. Una scazzottata da film. Sembrava una rissa tra bande rivali, piccoli gruppi che si affrontavano e si picchiavano, poi si separavano e tornavano a fronteggiarsi. Volarono davvero tanti pugni. Michelangelo Sulfaro fu uno di quelli più decisi a farsi rispettare, insieme a Papadopulo e Morrone che da buon argentino aveva il sangue molto caldo. Un carissimo ragazzo, Morrone, ma non conveniva proprio farci a pugni. Sinceramente non ho chiaro come fosse cominciata la rissa, però mi ricordo che tornai a casa con la giacca strappata. Non fu una cosa facile raccontare a mia moglie come una cena con i colleghi inglesi fosse degenerata in un incontro di pugilato”.

Nel 1973, in Coppa Uefa la Lazio si trovò di fronte, nel secondo turno, l’Ipswich Town. E fu di nuovo battaglia. Stavolta solo in campo, ma ben oltre il novantesimo minuto di gioco.

“Era la squadra rivelazione del campionato inglese. Il loro allenatore era Bobby Robson e stavano disputando una stagione incredibile, tenendo testa a Leeds United, Liverpool e Derby County. All’andata perdemmo quattro a zero in uno stadio con quasi trentamila spettatori. Il loro numero dieci, Trevor Whymark segnò tutte e quattro le reti. Era immarcabile. Il quarto gol, però, fu viziato da un fallo di mano dell’attaccante inglese che si aggiustò la palla mentre si liberava della marcatura di Facco. Le nostre proteste furono veementi, ma l’arbitro dell’incontro, uno svedese, fu irremovibile”.

La Lazio nella partita di ritorno avrebbe dovuto segnare cinque reti senza subirne alcuna. Era un’impresa difficile, quasi disperata. Ma non impossibile per gli undici biancocelesti. I giocatori e i tifosi lo sapevano, ed erano tutti molto carichi, specialmente dopo le dichiarazioni rilasciate, prima della partita, dai calciatori di entrambe le squadre. I giornali inglesi come al solito avevano magnificato i maestri del calcio contro la pochezza del calcio italiano, tutto fatto di difensivismo e catenaccio. Il Daily Express aveva scritto che la difesa della Lazio era stata presa dal panico di fronte ai feroci attacchi degli inglesi che avrebbero potuto fare a pezzi qualsiasi squadra europea. Insomma, i giocatori della Lazio erano carichi a pallettoni.

“Iniziammo bene la partita di ritorno. Dopo meno di un minuto eravamo già in vantaggio per uno a zero. Segnò Garlaschelli su cross di Frustalupi. Poi Chinaglia fece il due a zero col quale chiudemmo il primo tempo in vantaggio. Gli inglesi avevano perso tutta la loro baldanza. Ora erano loro a difendersi, soprattutto giocando in maniera fallosa. Whymark non toccò un pallone”.

Nella ripresa successe il finimondo. La partita degenerò quando l’arbitro olandese negò un rigore alla Lazio e ne concesse uno inesistente agli inglesi.

“Furono in pochi a mantenere la calma. Io la persi. Giocavamo contro gli inglesi per i quali, come sempre, provavo un sentimento misto di amore e di odio. Vedevamo la possibilità di passare il turno contro una grande squadra e ci rimanemmo molto male a subire un arbitraggio scandaloso. C’era un rigore per noi per un fallo di mano, invece l’arbitrò ne assegnò uno agli inglesi. Ci fu un grande parapiglia”.

I giornali inglesi raccontano che Wilson prese il pallone che era già sul dischetto e lo spostò in una fossetta che c’era un po’ più indietro. Servì a poco perché Viljoen segnò il rigore.

“È un episodio che non ricordo. C’era troppa confusione. Però ricordo bene che da quel momento la gara cambiò completamente. Chinaglia segnò altri due gol e sul finire gli inglesi fissarono il risultato sul quattro a due per noi. Dopo il fischio finale scoppiò il finimondo. Giorgione aggredì l’arbitro con un calcio e uno schiaffo, i guardalinee furono bersagliati con lanci di oggetti; in campo ci fu la caccia all’inglese. Nel tunnel ci fu un tafferuglio tra i nostri giocatori e il portiere dell’Ipswich Town, Best, che fu aggredito e rimase colpito al volto. Fuori allo stadio si verificarono diversi incidenti tra polizia, carabinieri e tifosi che tentarono anche di fare un’invasione di campo non certo pacifica. Qualche bandiera inglese fu persino bruciata sugli spalti. Lacrimogeni e cariche di polizia riportarono la situazione sotto controllo dopo oltre un’ora e mezza. Gli inglesi uscirono scortati con il loro pullman. Purtroppo la Lazio fu squalificata dalle competizioni europee per un anno e non potemmo disputare la Coppa dei Campioni l’anno seguente”.

Chinaglia rilasciò delle dichiarazioni pesanti, in linea col personaggio: le squadre che venivano a Roma sapevano che dovevano sbrigarsi a lasciare il campo in fretta e i giocatori dell’Ipswich Town non erano stati abbastanza svelti.

L’Italia avrebbe disputato di lì a breve un incontro amichevole a Londra e bisognava tenere alta l’attenzione. La nazionale azzurra, guidata in attacco proprio da Chinaglia, espugnò Wembley con un gol di Capello a quattro minuti dalla fine. Era il 14 novembre. Dalla rissa dell’Olimpico era passata solo una settimana.

“Fu ancora una volta una partita dell’Anglo-Italiano a trasformarsi in rissa, quella contro il Manchester United” – continua Wilson che ha un ricordo molto nitido di tutta la sua straordinaria carriera.

Si giocava la seconda giornata del Torneo Anglo-italiano, la Lazio se la doveva vedere all’Olimpico con il Manchester United. Era il 21 marzo 1973.

A dire la verità, già la prima giornata del Torneo aveva evidenziato le solite ruggini tra i giocatori laziali e quelli inglesi. Una Lazio sotto tono, esattamente un mese prima, era uscita sconfitta per due a uno dal Boothferry Park contro l’Hull City. Frustalupi aveva colpito un avversario che era già a terra e ne era nata una mischia. Holme e Oddi si erano presi di petto e per poco non scoppiò una rissa undici contro undici.

La partita con lo United, invece, era iniziata con fiori e abbracci tra i capitani delle due formazioni, Wilson e Charlton.

Finì con la caccia all’uomo e saltò anche il previsto scambio di maglie alla fine del match.

“Bobby Charlton non ha bisogno di presentazioni. Giocare contro di lui fu un’emozione immensa. All’inizio della gara gli consegnai una targa ricordo e una medaglia d’oro. Peccato che come al solito la partita degenerò. Stavolta, però, non fummo noi i primi a iniziare. Tutta colpa di Kidd, che al quindicesimo del primo tempo sferrò una gomitata maligna a Facco, quando la palla era ormai lontana. Dopo l’intervallo ci rendemmo conto della gravità dell’infortunio di Mario, che riportò la frattura della mandibola. Manservisi colpì con un pugno Lou Macari che a breve ne prese un altro anche da Frustalupi. Giancarlo Oddi venne alle mani con Kidd e l’arbitro inglese, Hill si fratturò un dito nel tentativo di dividerli. Io ero molto nervoso e iniziai a colpire duro gli avversari. Ricordo anche un episodio divertente, che per diversi giorni mi pesò molto sulla coscienza. Su rinvio del portiere avversario, intervenni deciso sul pallone spiovente e assestai un bel calcione nel sedere al giocatore con il quale me lo contendevo. Solo dopo il fallo mi accorsi che si trattava proprio di Bobby Charlton. Ci rimasi davvero tanto male. Per giorni considerai come scusarmi con lui. Pensai di scrivergli, di giustificarmi in qualche modo. Probabilmente per Charlton fu uno dei tanti calci presi nel corso di una formidabile carriera. Per me fu un’offesa non voluta a un monumento del calcio mondiale”.

La Lazio uscì dal match dell’Olimpico con diversi giocatori indisponibili. Oltre a Facco che rimase fuori per un mese, si infortunarono anche Petrelli, contrattura muscolare e Garlaschelli, stiramento. La Lazio, dopo aver minacciato di abbandonare il Torneo, decise di affrontare la trasferta londinese con il Crystal Palace con una formazione rimaneggiata.

“Saltai la partita contro il Palace al Selhurst Park e anche quella dell’Olimpico contro il Luton Town. A Londra gli inglesi protestarono per via della nostra formazione molto rimaneggiata. Però, per fortuna, né a Londra, né a Roma ci furono situazioni che sfociarono in rissa”.

Pino Wilson quando racconta ha il piglio del capitano.

Impettito, preciso, sempre puntuale. Staresti ad ascoltarlo per ore.

“Ho realizzato il sogno di ogni bambino della mia generazione, diventare calciatore, ecco perché ricordo tutte le partite che ho disputato. Ma se mi è difficile raccontare una partita che più delle altre mi è rimasta nel cuore, devo essere sincero, ce n’è una che non vorrei aver mai giocato, al di là del risultato, e che mi pesa molto ricordare”.

Wilson si commuove. Ripensa a quella domenica 6 aprile 1975.

Fu una primavera triste. Si moriva per la politica, a destra e a sinistra. Anche la hit parade, chissà, forse risentì del clima generale, con Modugno che cantava una canzone tutt’altro che allegra: ‘Piange il telefono’.

“Scendemmo in campo per giocare contro il Torino dopo una settimana terribile. Il trentuno marzo Maestrelli venne ricoverato alla clinica Paideia per accertamenti sul suo stato di salute. Al suo posto in panchina c’era Lovati. In mattinata, prima dell’incontro, venimmo a sapere notizie non proprio confortanti circa le condizioni del nostro allenatore. Il primo tempo di una pessima gara finì due a zero per i granata, forse ignari di quanto stava capitando. Giocammo male, contratti, con il pensiero altrove. Mentre rientravamo negli spogliatoi il pubblico, che ignorava la situazione drammatica, ci fischiò. Negli spogliatoi venimmo a sapere del cancro terminale che non dava a Maestrelli nessuna speranza di vita. Qualcuno pianse, qualcuno imprecò. Pensammo anche di non tornare in campo. Invece, con le lacrime agli occhi continuammo a giocare. Chinaglia segnò anche un gol, ma il Torino alla fine ne segnò cinque. Ad un certo punto, completamente frastornato, guardai il tabellone che segnava i gol dei granata, mi avvicinai a Giancarlo Oddi e gli dissi: ‘Ma il tabellone si sbaglia, ne abbiamo presi solo quattro’. Oddi mi riportò alla triste realtà del campo. Ecco, questa è proprio una partita che non avrei voluto giocare”.

Pino Wilson, gentiluomo per metà inglese e capitano della Lazio.

Fabrizio Ghilardi, tifoso della Lazio.

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