Tra genuini buongustai e radical chic. Mangiare bene a Roma (ma non solo a Roma)

Sarà che sin da quando sono bambino quella lettera “h” sbucata all’improvviso sulle insegne delle vecchie osterie per attirare i turisti non mi ha mai convinto. Sarà che quando ci penso mi viene in mente l’episodio de “I nuovi mostri” che si intitola per l’appunto “Hostaria!” (il film è del 1977) e mi vengono in mente pure i radical chic soddisfatti nel mangiare gli “zupponi alla porcara”, serviti dopo una zuffa in cucina tra Gassman e Tognazzi, amanti omosessuali e litigarelli, in cui pietanze di ogni tipo si mescolano in una cucina tradizionale ma piuttosto creativa. Sarà che mangiare bene a Roma non è più un’operazione semplice da tanti, troppi anni. Sarà che quando amici e conoscenti mi chiedono di essere indirizzati alla scoperta dei sapori più tipici della cucina romana mi sento a disagio, mi viene la sudarella e qualche volta mi sento pure male.

E così, reduce da visite a rinomati ristoranti in cui vengono proposte carbonare con panna e cubetti di pancetta affumicata, cacio e pepe con pecorino romano tagliato con parmigiano reggiano e frullato con l’olio d’oliva, ci penso e ci ripenso e sono sempre più convinto che l’attenzione alla qualità e la ricerca della serietà culinaria siano forme di grande virtù, necessarie alla sopravvivenza, specialmente nell’era dei social in cui proliferano ovunque programmi e blog sul cibo.

Serietà, onestà, cura della tradizione.

Non si mangia per abbuffarsi. Si mangia per gusto e civiltà.

Sono passati quasi cinquant’anni da “La grande abbuffata” (La grande bouffe), film cult e discusso di Marco Ferreri in cui i protagonisti decidono di suicidarsi in un’orgia di cibo e sesso. Noi ragioniamo su mangiate radical chic, cibi precotti per turisti ignari, abbuffate e, perché no, ingordigia e peccati capitali. Perché c’è differenza tra mangiare da radical chic, da turisti ignari, da ingordi e da sodali de L’Acernatore. Si creano saloni del gusto, luoghi d’eccellenza culinaria, locali per degustazioni da palati fini, ma le tradizioni locali muoiono, le trattorie spariscono, le osterie mettono la muta davanti e si trasformano. I radical chic saranno sempre felici di mangiare qualsiasi cosa abbia un nome ispirato, tanto di cucina non capiranno mai niente come non capiranno mai niente di niente; i turisti, che non si sa come scelgono sempre dei ristoranti che sembrano mense di associazioni caritatevoli e riescono a spendere come se fossero da Bulgari, saranno soddisfatti, tanto capiscono meno dei radical chic e gli ingordi continueranno a mangiare tanto per riempire ventri sgradevoli e pronti a manifestare con il meteorismo tutta la loro stupidità. Figli dell’edonismo, della società dei consumi capace solamente di distruggere e portare distruzione. L’eccesso che ferisce fino a uccidere. Il peccato di gola che uccide il corpo e l’anima, l’ingordigia deformante. Evagrio Pontico, monaco orientale di IV secolo la chiamava  “gastrimarghía”, follia del ventre. Uno dei principali vizi capitali, la sfrenatezza della gola. Quella che Basilio di Cesarea – peraltro amico di Evagrio – definiva “la madre di tutte le passioni”.

Mangiare è un bisogno primario dell’uomo; al nutrimento, però si unisce il piacere. Bisogna mangiare per vivere, ma anche godere della buona tavola, come dice San Giovanni Cassiano ai suoi monaci visto che “il piacere che si posa naturalmente sul mangiare non è un male”. Mangiare sì, ma mangiare bene, insomma. Il cibo va considerato per quello che è: un’espressione di gioia e di rendimento di grazie per la bontà delle creature donate da Dio e trasformate da quella raffinata forma culturale e da quel linguaggio dell’amore che è la cucina.

Praticamente il messaggio de L’Acernatore. I cui sodali non finiranno a cena né con i radical chic che mangiano qualsiasi cosa abbia un nome esotico-strano-tradizionale-divertente o degustano piatti decorati e senza sapore, né con i turisti che vagano per Roma come anime in pena alla ricerca di un classico ristorante per turisti. E soprattutto non finiranno all’Inferno come gli ingordi che nel sesto canto della Divina Commedia sono costretti a ingoiare fanghiglia prodotta da una incessante pioggia fredda e nera.

Amen.

Di efferati delitti e d’altre storie macabre e Le avventure romane di Enomoto Takeshi su The Mourning Post

È Di efferati delitti e d’altre storie macabre di Fabrizio Ghilardi, edito da Idrovolante Edizioni, la migliore raccolta di storie brevi del 2020, secondo una giuria composta da intellettuali,  critici letterari e scrittori tra i quali spiccano Hégésippe Simon (intellettuale e uomo politico francese), Eli Stormfield (capitano di marina statunitense) e Adam Jeffson (medico inglese). La commissione ha valutato il libro di Ghilardi meritevole di una menzione speciale per il prestigioso Witch Prize promosso da The Mourning Post, autorevole quotidiano britannico.

Il libro era stato definito da Il Messaggero “la raccolta di racconti più punk” del 2020.

“Sono storie tetre, di tempi lontani, fantasmi, misteri, magia e segreti, quelle che compongono la raccolta di Fabrizio Ghilardi: quindici racconti densi di particolari e descrizioni accurate, che infittiscono l’atmosfera cupa che li caratterizza schiudendo al lettore un mondo fatto di irrazionalità, occulto ed elementi sensazionali che si intrecciano con vicende di guerra, superstizioni e amori dal profumo di morte” – così scriveva il quotidiano romano.

Secondo il giornalista del The Mourning Post, James Sorrow, Di efferati delitti e d’altre storie macabre rappresenta “uno dei migliori esperimenti di scrittura in cui il surrealismo si fonde al genere thriller e a quello horror in un noir surreale denso di black humor”.

Sempre a Fabrizio Ghilardi – scrive Sorrow nel The Mourning Post –  è andato un importante riconoscimento nell’anno appena concluso. Il suo Le avventure romane di Enomoto Takeshi (sempre pubblicato da Idrovolante Edizioni) si è aggiudicato il Premio Swindle 2021 come migliore racconto pubblicato in Europa. Già The Evening Observator aveva definito il libro “il primo racconto surrealista scritto durante una seduta di polisonnografia con elettrooculogramma piatto. Un libro che rappresenta uno dei più grandi esperimenti realizzati dopo l’invenzione dell’Acernatore”.

Sensazionale: B. R. Bruss intervistato a Parigi dal nostro inviato Enomoto Takeshi.

D: Anche lei ha diversi nomi.

R: Perché dice “anche” io? Cosa vuole intendere?

D: Ho da poco intervistato uno scrittore inglese che ne aveva parecchi.

R: Anche lui è un collaborazionista della repubblica di Vichy, condannato a morte in absentia come me nel 1946 dalle autorità democratiche che hanno vinto la guerra? Poi ho evitato il carcere e sono stato condannato a cinque anni di indegnità nazionale per aver “dopo il 16 giugno 1940, o portato consapevolmente in Francia o all’estero aiuti diretti o indiretti alla Germania o ai suoi alleati, o minato l’unità della Nazione o la libertà dei francesi, o alla parità tra loro”.

D: No, per lui era un vezzo.

R: Per me un po’ meno. Dopo la liberazione della Francia dal Nazionalsocialismo, visto che il nuovo mondo non mi piaceva mi sono messo a scrivere storie di fantascienza. Da René Bonnefoy sono diventato B. R. Bruss oppure Roger Blondel.

D: Non parliamo di politica, piuttosto parliamo di letteratura.

R: Sì, va bene, parliamo di libri allora.

D: La sua prima opera di fantascienza è un grande classico. L’ho letto in italiano con il titolo Cronache d’un mondo perduto.

R: In italiano? Curioso questo fatto.

D: Sì in italiano, pubblicato su Urania, la collana di fantascienza di Mondadori; me lo ha consigliato lo scrittore che mi ha inventato, un certo Fabrizio Ghilardi. Avrei potuto leggerlo anche in francese, ma io non parlo nessuna lingua al di fuori del giapponese. Solo che, attraverso questa scatoletta, posso parlare qualsiasi lingua e attraverso l’Occhiale Traslatore Linguistico di Secondo Livello posso decodificare ogni lingua.

R: Sono contento del successo che ho ottenuto. Mi piace molto scrivere di fantascienza perché mi conforta immaginare un futuro e anche un presente diversi. Mi intriga anche molto il suo occhiale che traduce e permette di leggere in qualsiasi lingua. Leggere e scrivere anche per isolarsi. Dobbiamo depietrificarci, caro signor Enomoto. Questo mondo è vuoto, banale, esageratamente dogmatico. Anche cambiare nome può aiutare.

D: Può aiutare a passare al bosco come scrive  Ernst Jünger nel suo Der Waldgang? Anche questo libro l’ho letto in italiano, come sopra. Si intitola il Trattato del ribelle.

R: Sì, qualcosa di simile. Passare al bosco, depietrificarsi, temi abbastanza simili. Come scrivere racconti di fantascienza.

D: Lei ha detto che ha preso il non-serio come centro di gravità. Il farfugliare primordiale, spontaneo, sovrabbondante, ma anche banale, quel chiacchiericcio che ascoltiamo nei bar, nella metropolitana.

R: Sono graffiti sonori che mostrano quanto il nostro mondo sia vuoto. Come si fa a essere seri? Mi piace molto Alfred Jarry.

D: Mi sembrano temi affini a quello che spesso dicevano i Surrealisti.

R: Chi, quelli che hanno abbandonato Antonin Artaud alla sua follia perché non era comunista? Spero di non morire come lui con una scarpa in mano.

D: A Ghilardi piace molto Anno 2391, ma sperava in un finale diverso.

R: Non riveliamo il finale ai lettori. Magari Ghilardi può riscrivere il finale come piacerebbe a lui. Glielo suggerisca.

 

 

 

 

Enomoto Takeshi intervista lo scrittore Charles Eric Maine

Il 21 gennaio il Wisdomless Club celebra il centenario della nascita di Charles Eric Maine, pseudonimo di David McIlwain, scrittore di fantascienza e sceneggiatore, nato a Liverpool nel 1921 e autore di grandi classici quali L’uomo isotopo e Il grande contagio. E lo celebra con un anno di ritardo, tornando indietro nel tempo.

Enomoto Takeshi è andato nel 1967 e lo ha intervistato.

D: Preferisce che la chiami con il suo nome vero o con uno dei tanti pseudonimi con i quali ha pubblicato i suoi libri?

R: Non fa differenza, è solo un nome. Un nome vale l’altro. Con quale sarò più famoso nel futuro?

D: Charles Eric Maine.

R: Bene,  mi chiami così, allora.

D: Vengo dal 2021, dicembre del 2021. Con Fabrizio Ghilardi stiamo celebrando il centesimo anniversario del suo compleanno.

R: Che bel pensiero, grazie. Ma cento anni li avrei compiti il 21 gennaio del 2021, non nel 2022.

D: Al di là della data, non mi sembra stupito.

R: No, perché anche io ho scritto sul tema viaggio nel tempo. Non creda di essere l’unico crononauta qui. Piuttosto chi sarebbe questo Ghilardi?

D: Lo scrittore che mi ha creato.

R: È famoso?

D: Le domande, però, le faccio io.

R: Ha ragione signor Enomoto Takeshi.

D: Oggi è il 23 aprile. Il 23 aprile del 1967. Le dice niente?

R: Sinceramente no.

D: Oggi è il giorno in cui è nato Ghilardi, sono venuto a fare gli auguri alla famiglia.

R: Auguri, allora.

D: Lei è stato definito “un autore di fantascienza di medio livello”, e come tale ha avuto successo. Si dice che “la maggior parte della sua fantascienza condivide una propensione per trame da thriller e una riluttanza a sostenere molto da vicino i suoi spesso traballanti riferimenti scientifici, quest’ultima tendenza particolarmente visibile nelle storie che presentano temi di fantascienza difficili come i viaggi nello spazio”.

R: Chi lo dice? Ghilardi?

D: Oh no, Ghilardi è un suo devoto lettore.

R: Non scrivo fantascienza pura, scrivo qualcosa che si può definire “thriller scientifico”.

D: Un suo racconto si intitola “Il grande contagio”. Sa che è un tema molto alla moda nel 2021?

R: Davvero?

D: Nel suo romanzo il contagio nasce in Giappone, nel mio Paese. Nel 2021 sono due anni che c’è una pandemia che pare sia stata generata o che comunque arrivi dalla Cina.

R: E come finisce?

D: Pare che non finisca mai. Se vuole vado nel futuro e torno a dirle come finisce questa storia. Ma stanno vaccinando tutta la popolazione mondiale con una, poi due, poi tre dosi e i governi mondiali hanno il controllo completo della popolazione. C’è una dittatura sanitaria, le banche sono padrone del mondo.

R: Sono felice di non essere arrivato a cento anni, dunque. Ma non voglio sapere quando morirò. Mi piace la suspense. Piuttosto, Ghilardi che dice?

D: Ha lasciato la sua città, Roma. Vive in campagna. Scrive romanzi. Ha appena finito di scrivere questa intervista. Sono le ore due del pomeriggio del 14 dicembre del 2021. È molto felice di tornare indietro di un anno e poterla festeggiare per il suo centesimo compleanno.

R: Lo ringrazi e me lo saluti cordialmente.

 

 

 

 

L’ultima volta che lessi un Diabolik

Era il 2007. A gennaio uscì Il segreto della rocca, sceneggiato da Mario Gomboli e Licia Ferraresi. Rimasi molto colpito dalla storia, tanto che dopo diversi mesi sentii la necessità di pubblicare un articolo il cui titolo la diceva lunga su quanto avessi apprezzato la storia: Se Diabolik diventa Super Pippo.

Volentieri, lo ritrascrivo in questa sede:

E anche Diabolik cede al politically correct…

Il Re del Terrore, l’antieroe in calzamaglia (scomodissima) nera, il personaggio che negli anni Sessanta è stato accusato di incitamento a delinquere, quel criminale che con il pugnale e gli aghi avvelenati generalmente uccide da par suo agenti di polizia, ricchi debosciati e malavitosi vari, dopo quarant’anni di omicidi, si fa buonista.

Il cattivo par exellence, partorito nel 1962 dalle menti di Angela e Luciana Giussani, l’uomo dagli occhi di ghiaccio che terrorizzano Clerville, rinuncia ai colpi che l’hanno reso famoso per intraprendere la strada delle cause sociali.

Tu quoque!

Nel numero del gennaio scorso intitolato “Il segreto della Rocca” il delinquente più ricercato al mondo, invece di rubare tesori e diamanti, si lancia in una storia che sembra pensata più per Candy Candy che per un freddo assassino: Diabolik colpisce un gruppo di potere che mostra tutto il suo oscurantismo ostacolando unioni di fatto, aborto, procreazione assistita e omosessualità.

È proprio questo ultimo tema che viene affrontato con grande attenzione dal nuovo direttore della casa editrice Astorina che pubblica il fumetto, Mario Gomboli. Insomma, defunte le due sorelle degne del film “Arsenico e vecchi merletti”, Diabolik si occupa sempre più di casi umani e di grandi temi sociali, mettendo da parte le sue manie omicide e il suo livore verso una società ricca, decadente e senza alcun codice etico.

Recentemente impegnato in diverse campagne sociali, come quella contro l’eccessiva velocità al volante e quella contro l’abbandono degli animali l’ex Diabolik privo di scrupoli (tanto che in un episodio non esita a far esplodere una nave per essere sicuro di colpire un passeggero in particolare), evolve in una direzione politicamente corretta e ammorbidita che lo rende decisamente alla moda.

Cosa direbbe l’ormai famoso Olindo di Erba che preparava i suoi piani leggendo pile di Diabolik e che per commettere il suo efferato assassinio si ispirava al suo eroe preferito? E che dire del polverone che stampa, sociologi e benpensanti vari scatenarono nella primavera del 1965 quando accusarono Diabolik di istigare i giovani al crimine, ai comportamenti immorali e deviati? Articoli sui giornali, interviste, interpellanze, sequestri della magistratura. Insomma Diabolik contro Ginko, anche nella realtà. Insomma, non ci sono più i delinquenti di una volta! Ma forse il nostro Diabolik, conscio del giro di vite che il Governo ha deciso a causa del dilagare della violenza, per la prima volta in tanti anni di crimine si è spaventato. Daspo preventivo, arresto in flagranza di reato entro le 48 ore, aumento delle aggravanti per resistenza e giudizio per direttissima riservati ai teppisti da stadio hanno fatto capire anche al Re del Terrore che stavolta si cambia. E aspettiamoci di tutto, ormai. E allora sarebbe bello saperlo convertito alla Fede e magari vederlo espiare, dopo aver preso i voti in un bel convento di Cappuccini, tutti i crimini commessi in quarant’anni.

In galera proprio non ce lo vediamo.

 

Piccata giunse la replica di Mario Gomboli che si guardò bene dall’inquadrare la problematica da me sollevata sul tema del politicamente corretto che aveva contagiato il Re del terrore già quasi quindici anni fa. Preferì, piuttosto, puntare il dito verso un attacco di omofobia che doveva avermi colpito. 

Per tutta onestà riporto anche la risposta del direttore, pubblicata sul weblog ubcfumetti: 

 

Con una sollecitudine che la dice lunga sull’attenzione che il redattore dedica a Diabolik, con dieci mesi di ritardo ecco apparire una recensione/critica all’UOMO DELLA ROCCA che si vorrebbe puntuale ma, evidentemente, è nata da una viscerale omofobia scatenata da Saverio Hardy.

Tutte le altre osservazioni, dal fatto che DK non si comporta “più” (ammesso che in qualche episodio l’abbia fatto) da terrorista o da serial killer sino allo stupore nel vedere il Re del Terrore testimonial di campagne sociali, avrebbero potuto avere spazio da almeno vent’anni… E invece no: guarda caso che le “contraddizioni” vengono rilevate solo dopo che Diabolik ha aiutato un amico omosessuale. Era peraltro già successo, e in più occasioni, che Diabolik accorresse in aiuto di qualcuno verso cui sentiva un debito d’onore, ma nessun giornalista se ne era scandalizzato perché si trattava di persone implicitamente o esplicitamente eterosessuali. Evidentemente redattori come quello di cui stiamo leggendo il testo (ma non è un caso isolato) avrebbero in questo caso voluto che Diabolik, scoprendo il lato omo di Saverio, gli girasse le spalle scandalizzato e un poco imbarazzato. Magari con una battuta sui “finocchi” che stanno bene in galera.

Sono molto soddisfatto di averlo deluso.

Mario Gomboli

 

Dell’omosessualità dell’amico di Diabolik ed Eva Kant, sinceramente, me ne infischio, così come non metto in dubbio i debiti d’onore del nostro antieroe. Ma resta un po’ di amarezza che in questi giorni si ripropone vedendo nelle sale cinematografiche il nuovo film di Antonio e Marco Manetti intitolato Diabolik. 

Sarà all’altezza del fumetto, almeno di quello delle sorelle Giussani o dovremo rassegnarci alle ipocrisie politically correct di una certa gauche caviar?

E allora, per non pensarci, ho rivisto il film con John Phillip Law e Marisa Mell (del 1968) e per prepararmi psicologicamente ho riguardato anche i due capolavori diretti da Steno e ispirati al nostro uomo in calzamaglia nera: Totò diabolicus (del 1962) e Arriva Dorellik (del 1967).

Fanno più paura del Diabolik di Gomboli.

 

P.S.: Ho detto una bugia. Ho preso alcuni vecchi Diabolik e prima di finire la redazione di questo articolo me li sono letti. Con gli occhi lucidi.

Gli otaku del 2000, i millennials e la cultura dell’entertainment: manga, anime e videogiochi

Devo ammettere che il tema della chiacchierata alla quale sono stato con immenso piacere invitato a Cassinofantastica mi lascia discretamente insensibile, forse per una semplice questione di età – mi sono allontanato abbastanza dal giorno della mia nascita – e forse per ragioni culturali che del Giappone mi fanno ammirare le epoche che lo hanno reso grande fino alla Seconda Guerra Mondiale. Poi, sinceramente, del Paese del Sol Levante ho perso le tracce, salvando almeno per mia ignoranza poche singole cose isolate, tra le quali gli insegnamenti di Mishima Yukio che del Giappone doveva amare e apprezzare le stesse cose che amo e apprezzo io.

Del Giappone contemporaneo conosco davvero poco e quello che conosco, generalmente, si rifà allo spirito millenario del bushido. 

Di anime, manga e videogiochi non so molto. Tantomeno di travestimenti da Pokemon, visto che l’ultima volta che mia madre provò a vestirmi da Zorro disegnandomi i famosi baffetti del giustiziere mascherato con la sua matita per gli occhi, covai per giorni un malsano intento di liberarmi di lei.

La mia infanzia è trascorsa giocando a pallone, attaccando sull’album le Figurine Panini o scambiandole con gli amichetti, oppure giocando a Subbuteo, la più riuscita replica di calcio da tavolo mai pensata da mente umana. Ma in qualche modo sono stato un otaku anche io, come tanti bambini e adolescenti della mia generazione: la Generazione X oppure la Generazione che oggi gli adolescenti tiktoker chiamano dei boomer.

Otaku è un termine della lingua giapponese che più o meno (mi perdonino gli studiosi di lingua giapponese e i sociologi) indica una sottocultura di appassionati non solo di manga, anime, e altri prodotti ad essi correlati, ma più in generale, di diversi argomenti. Io sono stato e temo di esserlo ancora un otaku del calcio in bianco e nero con tutte le manie che comporta essere un appassionato di qualcosa. Negli anni Settanta in cui sono stato bambino e negli Ottanta in cui sono stato adolescente, le mie passioni non sfioravano nemmeno lontanamente il tema proposto dalla nostra chiacchierata. Le serie TV ancora si chiamavano sceneggiati televisivi – ricordo Il segno del comando, La baronessa di Carini e Belfagor – la televisione fino al 1976 (almeno per me e per la mia famiglia) non aveva il sistema PAL Color e i cartoni animati prevedevano una programmazione di Gatto Silvestro e affini. Quando arrivarono i primi robot la mia fantasia era mossa da altro e solamente la canzone dei Kraftwerk, The robots, e la band  francese che si chiamava Rockets mi facevano pensare agli automi. Atlas Ufo Robot, conosciuto anche come Goldrake, che comparve sugli schermi delle tv italiane nello stesso anno dell’album dei Kraftwerk The man-machine, il 1978, non poteva competere con l’amore che nutrivo per la Lazio e nemmeno con l’avventura della nazionale italiana di calcio che ben figurò ai Campionati Mondiali in Argentina. Del Giappone calcistico non c’era traccia e se la sua nazionale non figurava né sull’album Panini, né sul catalogo a colori del Subbuteo, sicuramente non esisteva. 

Una cosa, però, va detta per tutta onestà. Quando ho terminato la prima storia di Enomoto Takeshi che appare sulla raccolta di racconti brevi intitolata Di efferati delitti e d’altre storie macabre, le mie figlie mi hanno fatto notare una cosa che mi era completamente sfuggita. La sacca dalla quale Enomoto Takeshi estrae sakè – ma non solo sakè – ricorda la pancia dalla quale Doraemon estrae i suoi chiusky. 

Probabilmente un otaku di Doraemon, da bambino, in qualche modo lo sono stato anche io. 

Il Giappone di Enomoto Takeshi e il “brescianismo” di Monsignor Gherardi nella Roma pre fascista, tra sedute medianiche e invenzioni bizzarre.

Il titolo pare porsi a metà tra un articolo di epoca fascista pubblicato sulla rivista dell’Istituto Nazionale di Studi Romani e un film di Lina Wertmüller, uno di quelli con i titoli lunghissimi, forse perché il vero nome della regista era altrettanto lungo, Arcangela Felice Assunta Wertmüller von Elgg Spanol von Braueich. E invece è un tentativo di razionalizzare i motivi che stanno a monte della realizzazione del nuovo romanzo di Fabrizio Ghilardi che si intitola Le avventure romane di Enomoto Takeshi e di provare a fornirne una spiegazione per arrivare a valle. Diciamo subito che il romanzo non è un libro sul Giappone anche se, considerato che il protagonista è un giapponese, Idrovolante Edizioni lo ha collocato nella collana Sedici Raggi dedicata proprio alla terra del Sol Levante. In Italia basta essere stati una volta in Giappone che si è subito esperti di cultura giapponese: non è il caso di Ghilardi, anche perché in Giappone non c’è mai stato. Non si tratta neppure di una classica operazione volta a spiegare la particolarità della mentalità giapponese attraverso il confronto con le culture extra-giapponesi, in particolar modo europee e statunitensi. Il termine corretto dovrebbe essere nihonjinron che significa “teorie sui giapponesi”, anche nel caso in cui esse venissero formulate da autori non giapponesi che però condividano l’insieme di testi di sociologia e di psicologia che spiegano quanto particolari siano la cultura e la mentalità del Giappone. Andava detto, tanto più che la conoscenza del Giappone da parte di Ghilardi è limitata a un discreto numero di saggi e di romanzi ma non alla fruizione diretta di luoghi e spazi e nemmeno della lingua. Sempre che sia utile, allora, vale la pena di inquadrare il romanzo negli schemi che hanno portato alla sua realizzazione e non è un’operazione semplice perché diversi sono i filoni letterari che lo ispirano e che hanno formato l’autore. Probabilmente il romanzo si potrebbe iscrivere in un filone ottocentesco che Antonio Gramsci non esitò a definire “brescianismo”, termine dispregiativo coniato sul cognome del padre gesuita Antonio Bresciani, acceso avversario del liberalismo risorgimentale e del romanticismo, autore di un importante filone apologetico della cultura e della morale cattolica. E allora se Gramsci dal carcere sui quaderni lamenta il proliferare dei nipotini del Bresciani portatori di “sagrestanesimo, aristocraticismo innato, paternalismo gesuitico” (quando i gesuiti non erano quelli di oggi) ecco Ghilardi diventare un degno nipote del padre Bresciani in quanto autore di un libro illiberale, perché nel romanzo al giapponese si affianca la figura di un monsignore romano che racconta a Enomoto Takeshi (e al lettore), quanto vi sia da sapere circa i Novissimi, la morte, il giudizio particolare, il paradiso o l’inferno. Enomoto Takeshi, dal canto suo, è un personaggio surreale, come spesso altrettanto surreali sono i dialoghi e gli eventi narrati. Insomma, per certi versi Enomoto Takeshi è un personaggio da letteratura fantascientifica, ma altrettanto ha domande e istanze del suo tempo, affascinato dall’ignoto, dalla ricerca della vita dopo la morte, e dallo spiritismo. Egli sfida il costume dell’epoca, le convinzioni e le sovrastrutture imposte dai condizionamenti borghesi di primo Novecento e ipotizza varchi spazio temporali, mondi paralleli e apparecchi come il cronovisore che nei primi anni Settanta del secolo scorso fu attribuito a padre Pellegrino Ernetti, un monaco benedettino italiano che però non fornì mai alcuna prova concreta della sua invenzione. La storia narrata nel romanzo di Ghilardi è ambientata nel 1908, un tempo lontano dalla prospettiva del lettore ma che appare ignoto quanto un tempo futuribile perché Enomoto Takeshi si trova a esplorare un mondo che noi non vediamo ma che è esistito, ovvero la Spina di Borgo, Piazza Montanara, il Quartiere Alessandrino, tutte zone di Roma sparite lentamente tra la presa di Roma e il ventennio fascista e che rendono la storia piacevolmente irreale e la inquadrano in un filone surrealista che dal Tristram Shandy di Sterne arriva Flann O’ Brian, passando per la patafisica di Jarry e di Boris Vian. Surreale come l’acernatore, bizzarra invenzione di Enomoto Takeshi, che egli definisce una sorta di potenziometro di intensità che va collegato al Phonoakustischer Repeater tramite un adattatore e un convertitore di onde elettromagnetiche, costituito da un antenna simile a un dipolo hertziano, collegato a delle sfere metalliche che fungono da serbatoi per le cariche. Con buona pace di Gramsci.